Scrupoli e malinconia, via di casa mia

Domenico Saraceni, un dottore che frequentava l’Oratorio, fu colpito dalla scrupolosità, una malattia dell’anima che tende a far vedere in ogni cosa un peccato grave. Un profondo pessimismo si era impossessato di lui e da allora si era rintanato in casa, rifuggendo dalle amici e dalla vita dell’Oratorio. Da buon medico cercava di curare se stesso con ogni metodo, ma senza alcun successo. Alla fine, ormai sfinito e senza speranza, si recò da san Filippo, rivelandogli il suo stato d’animo: “Padre, mi sento stanco e avvilito, e la vita mi diventa ogni giorno più difficile da sopportare. Il demonio mi perseguita con continui dubbi e tentazioni e io non so più come fare”. Filippo con il viso sorridente gli rispose: “Non preoccuparti, che presto tutto passerà. Tu però quando ti senti così depresso ripeti questa frase: ‘Scrupoli e malinconia, fuori di casa mia’ e vedrai che ogni male svanirà”. Poi il Santo chiamò il Gallonio nella stanza a cantare davanti al triste ammalato alcune allegre canzoni popolari. Filippo accompagnava il canto con un balletto ridicolo che fece sganasciare dalle risate il medico, ormai totalmente guarito dalla brutta malattia della tristezza.

 

Acqua in bocca, pace fatta

Una donna si lamentava continuamente con Padre Filippo perché la sua vita familiare stava diventando un’inferno a causa di continui litigi con il marito. Diceva lei: “Prego sempre il Signore che possa portare la pace nella mia casa, ma invece la situazione peggiora sempre più”.

Un sistema per far tornare l’armonia e la serenità in famiglia ci sarebbe - le rispose il Santo. Però devi seguire fedelmente le mie istruzioni. Fa così: prendi questa bottiglia d’acqua e quando tuo marito comincia a gridare aprila e bevine un sorso, ma senza inghiottirlo”.

La donna tornò a casa e subito sperimentò che la cosa funzionava. Appena il marito iniziava  la lite lei apriva l’armadio che conteneva la bottiglia miracolosa, ne beveva un sorso tenendo l’acqua in bocca: in questo modo non poteva rispondere all’insulto dell’uomo, il quale, di fronte al suo silenzio, subito si placava. Filippo sapeva che non sbaglia il proverbio popolare che dice: “Una bocca silenziosa ne azzittisce mille”.

 

Contro la vanità

Padre Agostino Manni, tenne in occasione di una importante ricorrenza una solenne omelia. Parlò in maniera così bella che tutti si complimentarono con lui. Anche Filippo si congratulò per la riuscita predicazione, ma per non farlo montare in superbia gli ordinò di ripetere lo stesso discorso, senza cambiare neppure una virgola, anche nelle sei sere successive. E così Padre Agostino dovette salire sul pulpito ripetendo anche i giorni seguenti le medesime cose. Già al secondo appuntamento la gente si accorse che il predicatore non faceva che ripetere le stesse parole. La terza sera iniziarono a dire fra loro: “Ma sa solo questa di predica? Non conosce altri argomenti?” E molti, annoiati o irritati si alzavano e uscivano dalla Chiesa. Quelli che erano rimasti non facevano che sbadigliare o mormorare. Con grande sollievo del padre Manni la settimana passò e così anche la penitenza inflittagli da Padre Filippo, che gli disse: “Bravo, hai ripetuto tutto a puntino. Ora puoi anche cambiare argomento!”.

 

Cani e gatti

Tra i frequentatori dell’Oratorio vi erano anche una vecchia gatta e un cane appartenuto al cardinal Fiora. Erano tra gli strumenti preferiti usati da Filippo per tenere umili i suoi figli spirituali. Voleva che i suoi penitenti a turno camminassero per le vie di Roma portando a spasso le bestiole. Il più colpito da questo strazio era il Tarugi, che aveva già da sei anni ricevuto dal Santo il gravoso compito di passeggiare per le strade del centro portando in braccio la grossa gattona. Oltre al danno c’era poi la beffa di doversi preoccupare di nutrire l’animale recandosi dal macellaio a chiedere lo speciale “pasto per la gatta”.

Il discepolo non poteva maledire il Padre Filippo, che amava più di se stesso, ma le due bestie erano diventate bersaglio dei peggiori malauguri: “Brutte bestiacce, che potessero morire tutt’e due!”, esclamava ridendo. Un giorno il cane morì veramente e molti nell’Oratorio tirarono un sospiro di sollievo poiché non c’era più quella bestia da loro definita il “Crudel flagello delle menti umane”. Il Tarugi, nella comune gioia dei discepoli del Santo per la dipartita del cane, scrisse anche uno scherzoso elogio funebre, augurando anche all’altro animale una veloce fine:

Non ci darai più spero,

tentazioni e tormenti come hai fatto!

Quel che è avvenuto a te

avvenga anche al gatto!