Tutti coloro che ebbero occasione di vederli in quei giorni ‑ gli altri detenuti, i cappellani delle carceri, i secondini, e perfino i funzionari della Gestapo ‑ rimasero fortemente colpiti dal loro coraggio e dalla nobiltà del loro atteggiamento, come da una luce. La loro calma e tranquillità serena costituiva uno strano contrasto con la tensione febbrile che regnava nell'edificio della Gestapo. La loro impresa aveva cagionato grande preoccupazione fino nelle piú alte sfere del partito e del governo. Sembrava compiersi in questo caso una tacita vittoria della giustizia impotente, della libertà ridotta in catene, sulla brutalità e sull'assenza di diritto; e la notizia si diffuse nelle prigioni e nei campi di concentramento come una brezza presaga della primavera. Alcuni di coloro che li videro in carcere ci hanno parlato dei loro ultimi giorni di vita e delle ore estreme.

Questi numerosi piccoli racconti si sono composti come tanti pezzetti di ferro attratti da una calamita, formando il quadro di alcune giornate di vita intensa. Pareva che molti anni di vita non vissuta volessero condensarsi in una vitalità particolarmente concentrata.

Ho avuto occasione di ripensare in carcere, dopo la loro morte, nelle ore (che sembravano non passare mai) dell'incertezza e del dolore, all'atteggiamento, alle parole e alla via percorsa dai miei fratelli e dai loro amici, e ho tentato di comprendere il senso politico piú profondo della loro azione, attraverso il filtro della tristezza.

A partire dal secondo giorno dopo l'arresto avevano preveduto la condanna a morte e accettato questa certezza con coerenza. In un primo momento, finché tutti i loro tentativi di occultare la realtà non divennero insensati di fronte al peso delle prove raccolte contro di loro, avevano intravisto e voluto una via tutta diversa: quella di sopravvivere e di cooperare a una nuova vita dopo la fine della dittatura. Hans aveva dichiarato con energia, ancora poche settimane prima, pensando forse alle molte condanne a morte emesse in quei giorni: « Questo dobbiamo evitarlo a tutti i costi. Dobbiamo vivere per trovarci al mondo dopo, perché c'è bisogno di noi. Non me ne importa del carcere né del campo di concentramento. Vi si può sopravvivere. Ma non si deve mettere a repentaglio la vita ».

Ora però la situazione era improvvisamente mutata. Non si poteva piú tornare indietro. Adesso non v'era che una possibilità: preoccuparsi con oculatezza e fredda calma di limitare il piú possibile il numero delle persone compromesse. E impersonare ancora una volta con la massima chiarezza quell'ideale che avevano voluto difendere e tenere alto: l'uomo libero, indipendente, segnato dall'impronta dello spirito...

Benché non avessero modo di comunicare, esisteva fra di loro un accordo saldo e radioso: assumersi tutta la " colpa ", tutto, tutto, per scagionare gli altri. Quelli della Gestapo si fregavano le mani udendo le loro ampie confessioni. Fratello e sorella si sforzavano, frugando nella memoria, di rammentare dei "delitti " di cui potersi incolpare. Era come una grande gara per salvare la vita degli amici. E dopo ogni interrogatorio ben superato tornavano nelle loro celle col cuore colmo di soddisfazione.

In quei giorni debbono essersi librati in una sfera dell'esistenza posta al di là dei viventi, ma al tempo stesso distaccata dalla morte; profondamente legata alla vita... Le disposizioni prese dalla polizia per evitare dei tentativi di suicidio debbono essere sembrate loro quasi ridicole e insulse. Nella cella non poteva esserci nessuna lama, nessun oggetto; non era neppure concesso loro di rimanere soli. Un altro detenuto doveva stare sempre con loro per evitare che potessero togliersi la vita. Giorno e notte una viva luce brillava nelle celle dei condannati a morte.

Vennero ore difficili, dense di responsabilità e di preoccupazione, specie per Hans. Gli interrogatori si sarebbero continuati a svolgere come era necessario? Sarebbe egli sempre riuscito a conservare la presenza di spirito, in maniera da poter rispondere nel modo dovuto, senza che gli sfuggisse un nome o un accenno sospetto? Partecipavano con interesse sempre desto ai propri interrogatori. Nelle brevi pause che venivano loro accordate, Hans (a quanto ci hanno riferito i suoi compagni di carcere) riusciva ad essere spensierato e gaio. Poi seguivano però di nuovo ore difficili, in cui predominava la preoccupazione per gli amici e il dolore di dovere imporre ai congiunti un addio di quel genere.

Giunse infine l'ultima mattina. Hans affidò al compagno di cella vari messaggi per i genitori e per gli amici. Poi gli strinse la mano e gli disse con bontà, quasi solennemente: « Diciamoci addio ora, finché siamo soli ». Poi si volse in silenzio verso la parete e scrisse alcune parole sul bianco muro della prigione. Nella cella regnava un grande silenzio. Aveva appena deposto la matita, che si udí il tintinnio delle chiavi. Entrarono i secondini, gli misero le manette e lo condussero all'udienza. Nella cella rimasero le parole scritte sulla bianca parete: delle parole di Goethe, che suo padre soleva ripetere piano fra sé, camminando pensieroso avanti e indietro, e del cui pathos Hans aveva piú di una volta sorriso: « Conservarsi a dispetto di qualsiasi violenza» .

La possibilità di scegliersi un avvocato non esisteva per loro. Venne loro assegnato un difensore d'ufficio, che però era poco piú di una marionetta impotente. Sophie, al pari degli altri due, non sperava di poter avere da lui il minimo aiuto. « Se mio fratello verrà condannato a morte, non dovrà essere data a me una pena piú mite, perché sono colpevole quanto lui », gli dichiarò con pacatezza. In quei giorni era vicina al fratello con tutte le sue forze e con tutti i suoi pensieri; si preoccupava molto per lui, intuendo il peso che lo gravava. Domandò al difensore se, come combattente, egli avesse diritto ad essere fucilato. Ricevette una risposta incerta. L'avvocato rimase addirittura sconvolto dall'altra domanda che ella gli rivolse, se cioè sarebbe stata pubblicamente impiccata o decapitata. Non si aspettava di sentirsi domandare una cosa del genere, e per di piú da una ragazza.

In queste ultime notti, se non era sottoposta agli interrogatori, Sophie dormí sodo come un bambino. Una sola volta cadde in preda a una profonda agitazione: quando le venne consegnato l'atto di accusa. Dopo averlo letto, trasse un profondo respiro. « Dio sia lodato », fu tutto quello che disse.

Poi si coricò sul suo giaciglio e fece sottovoce, con tono tranquillo, delle considerazioni intorno alla sua morte. « É una giornata cosí splendida, piena di sole; e io debbo andarmene. Ma quanta gente deve morire di questi tempi sui campi di battaglia, quante giovani vite piene di speranza... Cosa importa che io muoia, se migliaia e migliaia di persone verranno scosse e destate dal nostro agire? » Era domenica, e innumerevoli persone passavano ignare davanti alle inferriate, godendo i primi raggi del sole primaverile.

Quando Sophie venne svegliata l'ultima mattina, raccontò, ancora seduta sul suo giaciglio, quello che aveva sognato. « In una giornata piena di sole portavo a battesimo un bimbo che indossava una lunga veste bianca. Per giungere alla chiesa dovevo percorrere un ripido sentiero di montagna. Ma portavo in braccio il bimbo saldamente e con sicurezza. Improvvisamente si aprí davanti a me un crepaccio. Ebbi appena il tempo di deporre il bimbo al sicuro al di là del crepaccio; poi precipitai nella voragine». Cercò subito di spiegare alla compagna di cella il senso di questo trasparente sogno. « Il bimbo simboleggia la nostra idea, che si affermerà contro tutti gli ostacoli. Ci è stato concesso di esserne i pionieri, ma dobbiamo morire per essa prima di vederla tradotta in realtà ».

Poco dopo anche la sua cella rimase vuota. Vi restò l'atto di accusa, sul cui verso era scritta con tocco lieve la parola LIBERTÀ.

I miei genitori avevano appreso la notizia il venerdí, giorno successivo all'arresto dei miei fratelli, prima da una studentessa con la quale eravamo in amicizia, e poi dalla telefonata, già molto triste e poco chiara, di uno studente sconosciuto. Decisero subito di andare a trovare gli arrestati e di fare tutto quanto era in loro potere per alleviarne la sorte.

Ma che mai potevano fare, impotenti com'erano? In ore gravi e decisive come quelle si crede di potere infrangere dei muri. Poiché c'era di mezzo la vacanza di fine settimana, in cui non erano consentite visite ai carcerati, andarono a Monaco il lunedí assieme a mio fratello Werner, ritornato due settimane prima, insperatamente, in licenza dalla Russia. Lo studente che li aveva informati telefonicamente dell'arresto li aspettava già alla stazione. Agitatissimo, disse: «Non c'è un minuto da perdere. Il Tribunale del popolo è in seduta e il dibattimento è già in corso. Dobbiamo essere preparati al peggio» . Nessuno si era aspettato un ritmo cosí veloce, e apprendemmo solo piú tardi che si trattava di un "processo per direttissima", perché i giudici volevano dare un esempio con la fine rapida e spaventosa di quegli accusati. «Dovranno morire?», chiese coraggiosamente la mia mamma allo studente. Questi fece, disperato, cenno di sí, non riuscendo quasi piú a frenare la propria emozione. «Se avessi un solo carro armato», esclamò nel suo dolore impotente, «e un pugno di animosi, sarei in tempo a liberarli; troncherei l'udienza e li condurrei alla frontiera» . Si recarono in gran fretta al palazzo di giustizia e penetrarono nella sala delle udienze, in cui sedevano invitati nazisti.