L'abolizione del Cielo toglie forza alla vita

Maurizio Blondet (Avvenire, 5 ottobre 2002)

E' il male più taciuto, quello di cui parlano due pagine del Rapporto sulla Violenza dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: l'enorme numero di suicidi nei Paesi dell'Est. Sul suicidio si tace in genere, sia per censura sia perché quel male che lo induce non ha nome. Nelle nazioni che furono comuniste, è un enigma tragico. L'Italia ha 8,4 suicidi su 100 mila abitanti. Nella Federazione russa la cifra si quintuplica (43,1) e così in Bielorussia (41,5). In Lituania la percentuale sale a 51,6, in Lettonia a 36,5, in Ungheria a 36, in Estonia a 37,9 in Kazakistan - fatto inaudito in un paese di tradizione islamica - 37,4. In confronto il Giappone, luogo dove il darsi la morte gode di una triste prestigiosa tradizione culturale, è un Paese felice, coi suoi 19 suicidi ogni 100 mila abitanti.
Perché? Certo, quelli sono Paesi del gelo e dei giorni brevi e bui (il Mediterraneo grazia le popolazioni che vi si affacciano: in Grecia il tasso è solo di 4,2, in Israele è uguale all'italiano); sono i luoghi dell'alcolismo alla vodka, sintomo e insieme aggravante delle depressione maggiore, prima causa clinica del darsi la morte. Ma ciò non spiega tutto: là, finché durò il socialismo, il tasso fu minore.
Forse è un effetto collaterale maligno della libertà - nella versione occidentale - che quei nostri vicini dell'est non hanno conquistato, ma in cui sono stati gettati, come il naufrago è gettato nelle onde della tempesta? Lo sospettiamo. Già per noi che ci siamo nati, questa libertà è dura da sopportare. Non è con la libertà politica che ce l'abbiamo; ma con quella post-moderna libertà individualista e relativista, fondata sulla finzione che ciascuno sia capace di darsi da sé il motivo per vivere, al di fuori da ogni fede, da ogni compito comune. Questa libertà equivale a un vuoto che, per esempio, i nostri giovani tragicamente sentono e non raramente riempiono di atti autodistruttivi. Figurarsi i maldestri apprendisti dell'Est, investiti dall'industria del desiderio che prima ignoravano, dalla pubblicità che nell'Ovest sostituisce la produzione di significato: il senso che i più non sanno darsi, viene riempito (illusoriamente) dalle "scelte" fra merci infinite e dozzinali, o fra stili di vita preconfezionati dai media. Da noi, essere liberi quasi equivale, ormai, ad essere vuoti: e chi è nuovo a quest'esperienza, di vuoto può morire.
Oppure l'aumento dei suicidi all'Est sarà uno strascico durevole di quell'immensa patologia sociale che fu il comunismo? Decenni di abitudine a tacere o a celare le proprie convinzioni, la vita consumata fra il razionamento di piccoli bisogni e le meschine certezze delle procedure burocratiche, possono aver formato uomini debilitati, incapaci di reggere l'aria aspra della libertà, dove ciascuno deve decidere di sé, e imparare quel che vuole.
Chissà. Crediamo, in fondo, che nell'un caso e nell'altro sia decisiva - per togliere la voglia di vivere - l'abolizione del Cielo. La libertà nella versione occidentale (l'unica disponibile oggi) e il socialismo "reale" hanno in comune questo: che chiudono l'uomo nell'aldiqua. Non può essere un caso che i Paesi musulmani, e quelli cattolici, abbiano i tassi di suicidi minori: nessuna disperazione è irrimediabile, per chi sa ancora chiedere aiuto al Cielo. Forse, la rieducazione alla preghiera - questa "tecnica" respiratoria dell'anima, la cui aria è la speranza - potrebbe migliorare le orribili statistiche.