L'EUCARESTIA

 

BIBLIOGRAFIA

Della vastissima produzione sul tema dell’Eucarestia segnaliamo soltanto quelle opere tenute presenti nella redazione di queste dispense:

 

AA. VV. La cena del Signore (Quaderni di lettura biblica, 7), Bologna 1983.

AA. VV. La liturgia eucaristica: teologia e storia della celebrazione (anàmnesis 3/2), Casale Monferrato 1983.

AA. VV. Eucaristia. Aspetti e problemi dopo il Vaticano II, Assisi 1968.

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AA. VV. Studi Eucaristici, Orvieto 1966.

J. AVER-J. RATZINGER, Il mistero dell’Eucaristia, Assisi 1972.

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J. BETZ Die Eucharisti in der Zeit der griechischen Vater, Band I/1, II/1, Freiburg i. B. 1955-1961.

J. BETZ L’eucaristia come mistero centrale, in “Mysterium salutis” v. 8 (=MS 8).

L. BOUYER Eucaristia. Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica, Leumann (Torino) 1983.

L. DEISS La cena el Signore, L’eucaristia nella Chiesa, Blogna 1977.

H. DE LUBAC Corpus mysticum. L’eucharestie et l’eglise au moyen age, Paris 1983.

F. -X. DURWUELL L’eucaristia sacramento del mistero pasquale, Roma 1983.

B. FORTE La chiesa nell’eucarisia, Alba 1977.

C. GIRAUDO La struttura letteraria della preghiera eucaristica, Roma 1981.

J. JEREMIAS Le parole dell’ultima cena, Brescia 1973.

R. LAURENTIN Gesù presente, Roma 1982.

X. LEON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Leumann (Torino) 1983.

F. -J. LEENHARDT, Le sacrament de la sainte cène, Neuchatel - Paris 1948.

F. -J. LEENHARDT Questo è il mio coro. La presenza eucaristica, Firenze 1969.

A. MANARANCHE Il corpo di Crsito pane della speranza, Brescia 1976.

R. MASI Il sacredozio e l’eucarestia nella vita della Chiesa, Roma 1966.

C. O’NEILL  Nuove prospettive sul mistero eucaristico, Assisi 1968.

A. PIOLANTI Il Mistero Eucaristico, Città del Vaticano 1983.

E. QUARELLO  Il sacrificio di Cristo e della sua chiesa, Brescia 1970.

J. SOLANO    Textos Eucaristicus Primitivos, tomo I, II, Madrid 1952-1954.

A. SACHENKER L’eucarestia nell’Antico Testamento, Milano 1982.

E. SCHILLEBEECKX La presenza eucaristica, Roma 1968.

M. THURIAN L’eucaristia, memoriale del Signore, sacrificio di azione di grazia e d’intercessione, Roma 1971.

J. -M. R. TILLARD  L’eucharistia pàque de l’église, Paris 1964.

 

 

“L’Eucaristia è comunione di Cristo con il Padre: primogenito tra i risorti, per mezzo dello Spirito, Cristo si offre come sacrificio per la nostra salvezza. Tutta la sua vita è presente in questa offerta.

 

L’Eucaristia  è comunione di Cristo con noi: associati al suo gesto di totale oblazione, diventiamo con lui vittima gradita a Dio. La comunione con lui è la via che conduce al Padre.

 L’Eucaristia è il massimo sacramento ecclesiale: dall’eucaristia la chiesa nasce come comunità nuova. Ha per legge il nuovo precetto di amare e trova in Cristo il suo modello di comunione.

L'Eucaristia è amore che diventa missione: consumando il sangue sparso per la remissione dei peccati, la Chiesa si offre con Cristo per la vita del mondo, luce e sostegno di comunione universale.”

 

(C.E.I. Eucaristia, comunione e comunità, 22-5, 1983, n. 3).

 

Le parole del documento della C.E.I. dicono in sintesi ciò che l’eucaristia è stata, è e deve continuare ad essere per la vita della Chiesa. Essa è il Mysterium fidei, il mistero proclamato e attuato della fede cristiana, il centro indiscusso della vita del popolo di Dio. Intorno a questo mirabile misteriosi è concentrata e sviluppata l’adorazione e la riflessione dei fedeli, per comprendere, senza mai esaurirla, l’ineffabile ricchezza, l’insondabile profondità.

 

Scrive il Durrwell: “La comprensione che la Chiesa può acquisire è a diversi livelli. Esiste una cognizione primaria dell’eucaristia, che è profonda, essenziale. Dono della fede, essa appartiene alla sfera dell’intuizione e viene data dalla ricezione stessa dell’eucaristia, giacchè, offrendosi in comunione, il Signore si fa conoscere. C’è un altra conoscenza dell’eucaristia che si sviluppa sul piano della ragione e si acquisisce nello sforzo della riflessione. Questa conoscenza è seconda. Anche se frutto di lungo e accurato studio, è meno profonda, meno essenziale, a servizio del prima e consecutiva ad essa. La prima può essere detta teologale, nel senso in cui sono teologali le virtù della fede, della carità e della speranza, le quali raggiungono il mistero inaccessibile ai discorsi. La seconda è chiamata teologica; cerca di esprimere il senso dell’eucaristia in concetti, la natura di questa presenza e di quello che è detto sacrificio eucaristico; tenta di far luce sul modo misterioso in cui Cristo è presente nel pane e nel vino, e di concentrare tutto ciò in un discorso coerente” (11-12).

 

Il nostro lavoro naturalmente riguarda il secondo tipo di conoscenza, quella teologica, la quale tenta di penetrare, con la ragione illuminata della fede, il mistero dell’eucaristia.

 

La molteplicità delle opere dedicate al nostro argomento, le divergenze di fede e di opinioni su punti anche essenziale, la verità di metodi e di tentativi di sintesi non rendono facile il lavoro.

 

Pensiamo che il punto di partenza debba essere senz’altro la lettura dei testi biblici. Bisogna però tener presente che esistono diverse letture della Scrittura (come del resto di ogni altra fonte della teologia). Osserva ancora il Durwell: “Si può leggere con occhi da esegeta storico, ponendosi le seguenti domande e altre simili: qual è stata la natura dell’ultima cena di Gesù, cena della pasqua ebraica o semplice “pasto testamentario” in cui Gesù prende congedo dai suoi discepoli? Qual è stato il tenore primitivo delle parole di Gesù, tramandate in maniera differente dalle tradizioni da cui sono derivate da una parte le formule di Matteo e di Marco, dall’altra quelle di Luca e di ! Cor 11, 24-25? Come si sono costituiti, prima della redazione dei vangeli, i racconti della cena, qual è l’apporto redazionale di ciascuno dei Sinottici? Si può anche fare una lettura teologica delle Scritture, cercando di afferrare il mistero cui fanno riferimento e di cui la fede delle comunità primitive è espressione. Questa lettura teologica differisce di molto, nel suo metodo, dagli studi di esegesi storico-critica e dalle sue analisi; è giustificata dallo scopo perseguito, che è la conoscenza non solo dei testi e della loro storia, ma del mistero di cui parlano quei testi. Non può disinteressarsi degli studi storici, li fa propri, ma li mette al servizio del suo scopo specifico: la conoscenza del mistero eucaristico. Mentre l’esegesi critica utilizza soprattutto l’analisi strumento di ricerca, la teologia getta sulla Scrittura uno sguardo d’insieme e scopre elementi di sintesi anche lì dove prima scorge elementi di separazione e perfino contrapposizioni” (35).

 

Teniamo presente questo duplice modo di lettura della Scrittura in primo luogo, ma anche delle altre fonti della teologia (non ci fermiamo ordinariamente sulle fonti liturgiche studiate nella specifica materia). Dividiamo così il capitolo in due sezioni, una di analisi, l’altra di sintesi teologica

 

SEZIONE 1 - Analisi delle fonti                                        ANALISI

I fondamenti biblici

 

Nel N. T. non troviamo ancora il termine eucharistia per indicare il sacrificio sacramentale dell’ultima cena. a quest’ultima invece sono riferite le espressioni che vengono usate per esprimere la celebrazione eucaristica, come “cena del Signore” (Kyriacon deipnon),(1 Cor 10, 21) o “frazione del pane”, “spezzare il pane” (Klasisi tou rtou, Klan ton arton) (At 2, 42.46; 10, 7.11; 1 Cor 10, 16), o “messa del Signore” (trapela Kyriou) (1 Cor 10, 21).

 

Il vocabolo eucharistia viene usato ben presto per designare la liturgia eucaristica: molto probabilmente già nella Didachè (9, 5), certamente in Ignazio (Smirn. 7, 1) e in Giustino (1 Ap. 66, 2).

 

Gli agiografi del N. T. usano eucharistia - eucharistein nel significato di ringraziamento, specialmente reso a Dio. Questa eucharistia si rende a Dio in modo particolare prima del pasto e in questo caso eucharistein può essere accompagnato o sostituito da eulogein: il fatto che il verbo eucharistein (come pure eulogein) venga usato nei racconti dell’ultima cena di Gesù, determinò l’uso di eucharistia - eucharistein per la celebrazione eucaristica.

 

I testi del N. T. che ci parlano dell’eucaristia non sono molti, anche se sufficienti per fondare senza ombra di dubbio il rito centrale delle comunità cristiane per dedurne le verità teologiche essenziali. Abbiamo i testi che ci parlano della pratica del banchetto eucaristico o ad esso si riferiscono sia esplicitamente che per illusioni: At 2, 42.46; 20, 7-11; 1 Cor 11, 17-34; 10, 16-26; Lc 24, 30-35; At 27, 35; Ap 2, 17 ecc.; le pericope dell’istituzione: 1 Cor 11, 23-26; mc 14, 17-26; Mc 14, 17-26; Mt 26, 20-29; Lc 22, 14-20; il discorso di Gv 6 sul pane di vita.

 

Inoltre va tenuto presente, come fanno ancora le parole e i gesti dell’ultima cena e la anafore dalla Chiesa primitiva hanno le loro radici nell’Antico Testamento e quindi lo studio dei testi eucarisici va illustrato con quanto Dio aveva maturato nell’esperienza del popolo d’Israele (cf. soprattutto le opere di Schenker; Girando; Bouyer; Thurian e La cena del Signore, 7-86).

 

Ci limiteremo a un’analisi degli elementi essenziali dei testi eucaristici, riservandoci di ritornare su alcuni temi nella II sezione e rinviando per una conoscenza più dettagliata delle opere citate (cf. soprattutto Léon-Dufur; Jeremias; Betz II/1; MS 10 230-258; La cena del Signore).

 

L’eucaristia nella comunità apostolica. Nella 1 Cor Paolo testimonia come nella comunità cristiana di Corinto i fedeli celebravano la “cena del Signore” (1 Cor 11, 20). L’Apostolo scrive la lettere verso il 55/56, ricordando che lui stesso aveva “trasmesso”, verso l’anno 50, quando Paolo andò per la prima volta a Corinto, ciò che aveva “ricevuto il Signore” (1 Cor 11, 23). Probabilmente ciò che ha trasmesso “è la catechesi ricevuta ad Antiochia, dove era stato educato alla fede negli anni 35/40” (Léon-Dufur, 87). Fin dalle origini dunque la celebrazione della cena del Signore è un fatto abituale delle comunità cristiane.

 

C’è un altra importante testimonianza negli Atti degli Apostoli. In essi “viene ricordata più volte un’azione che caratterizzava la comunità cristiana fin dall’età apostolica. Non è descritta nei dettagli: l’autore ne parla come di cosa conosciuta dai lettori, indicandola semplicemente con la espressione “frazione del pane” (At 2, 42) o con il verbo “spezzare (il) pane”; viene fornita un unica precisazione: ciò avveniva “a casa” (At 2, 46). Inoltre il conteso indica che la frazione del pane supponeva la riunione della comunità, e che si trattava di una pratica frequente. La menzione ritorna in At 20, 7; in questo caso non ci si trova più a Gerusalemme, ma a Troade, cittadina sulla costa nord-ovest della Turchia attuale. L’espressione, sconosciuta nel mondo greco, rimanda in primo luogo a un’usanza ebraica. Il gesto di rompere il pane è ricordato una sola volta nell’Antico Testamento, (Ger. 16, 7), mentre lo è sovente nella letteratura rabbinica” (Léon-Dufur, 29).

 

Cosa significa questa frazione del pane? Presso gli ebrei era il gesto che dava inizio al pasto della famiglia. Il capofamiglia prendeva il pane, pronunciava la preghiera di ringraziamento o benedizione a Dio per il comune dono del cibo necessario per la vita, poi lo spezzava con le mani e lo distribuiva ai commensali.

 

Mangiando il pane così condiviso, ciascuno dei commensali “riceve una parte della benedizione della tavola; l’amen comune e che il mangiare in comune il pane della benedizione uniscono quanti partecipano al pasto della comunanza di tavola” (Jeramias, 290).

 

Per i primi cristiani venuti dal giudaismo lo “spezzare del pane” doveva spontaneamente significare l’unità dei fedeli voluta da Cristo (cf. 1 Cor 10, 17) ed è facile che per i discepoli di Gesù questo gesto richiamasse la presenza del Maestro che lo compiva, come capofamiglia, quando era in mezzo a loro e soprattutto l compì, col significato nuovo che gli diede, nella cena d’addio. Il significato rituale della frazione del pane emerge più chiaramente nell’episodio di Troade: “Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti (synegmenon) a spezzare il pane e Paolo conversava con loro; e poichè doveva partecipare il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove erano riuniti... Poi (Paolo) risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì” (At 20, 7-8.11). Molti indizi favoriscono l’interpretazione eucaristica. I fedeli si radunano (synegmenon: un termine ce diverrà tecnico per l’eucaristia: synaxis), il primo giorno della settimana, il dono delle adunaze liturgiche cristiane (cf. 1 Cor 16, 2; Didachè 14, 1). Lo scopo della riunione è di spezzare il pane (Klasai arton). C’era un buon numero di lampade, probabilmente per ragioni liturgiche eucaristiche dei primi secoli (Plinio nel 112  scrive che i cristiani si radunavano “stato  die ante lucem”). Il tutto è accompagnato dalla parola dell’Apostolo.

 

Da notare che la frazione del pane è una delle cose che caratterizzano la vita della comunità primitiva: “Erano assidui nell'ascoltare l’insegnamento (didachè) degli apostoli e dell’unione fraterna (koinonia),nella frazione del pane (Klasei tou artou) e nelle preghiere (proseuchais)” (At 2, 42).

 

Senza addentrarci in questioni particolari, possiamo concludere: “Cena del Signore e frazione del pane... si presentano come l’espressione simbolica di un’esperienza comunitaria di fede. Tuttavia il rito non si trova mai isolato, ma accompagnato dalla Parola che gli permette di evitare il rischio di un falso ritualismo, e lo spinge ad un continuo rinnovamento. Esso è inseparabile dalla esigenza del mutuo servizio nella giustizia e nell’amore. D’altra parte, le due denominazioni primitiva convergono nel loro significato. La frazione del pane, che indica anzitutto un rito, significa anche la “partecipazione” al pane, e in tal modo tiene presente la dimensione sociale dell’Eucaristia. Da parte sua, la espressione “cena del Signore”, che indica per prima cosa la riunione comunitaria senza distinzione di classe, significa anzitutto che tale riunione è attuata dal Signore e quindi è attenta alla presenza di Dio stesso durante il banchetto. Da qualche parte la si consideri, l’Eucarestia collega intimamente culto ed esistenza” (Léon-Dufur, 37-38).

 

 

 

 

 

 

I racconti dell’ultima cena. I testi più importanti per l’eucaristia sono le quattro pericope che ci narrano come Gesù nell’ultima cena compì quei gesti che la Chiesa ripete ogni volta che celebra il mistero eucaristico. Si tratta di Mt 26, 26-29; Lc 22, 14-20; 1 Cor 11, 23-26.

 

Data la loro importanza, questi testi son stati attentamente studiati anche dal punto di vista esegetico. Tra gli studi più noti, quello di Jeremias e varie pubblicazioni di H. Schurmann; ma in queste pagine seguiremo soprattutto l’opera del Léon-Dufur che tiene conto dei lavori precedenti e rielabora la materia con prospettive esegetiche più attuali /cf. pure MS 8, 230-253). Naturalmente nessuno studio è definito,nè esaustivo.

 

Le quattro pericope narrano sostanzialmente lo stesso episodio: Gesù, mentre cena con i discepoli, distribuisce loro il pane e il vino su cui ha pronunciato particolari parole. Dice inoltre alcune espressioni che accennano a una interruzione del bere il vino fino a quando non sia venuto il regno di Dio. Da notare che le quattro recenzioni sono molto simili, ma non identiche: ognuna presenta delle particolarità.

 

Il Leon-Dufour distribuisce gli elementi della narrazione su tre assi:

 

“1.  Un asse verticale, che unisce Gesù alla creazione da una parte (pane e calice) e dall’altra a Dio (benedizione) e al suo regno (parola escatologica).

 

2.  Un asse orizzontale, che collega Gesù ai discepoli presenti e attraverso di loro ai molti.

 

3.  Un asse temporale, che congiunge nel presente puntuale il racconto passato di Gesù di Nazareth (il suo modo di parlare, vita di servizio, discepoli riuniti attorno a lui) e l’avvenire, del quale vengono suggerite tre scadenze: la morte prossima, la comunità operante dei discepoli, e il banchetto finale” (61).

 

La prima azione di Gesù consiste nel prendere il pane, dire la benedizione, spezzare e distribuire. Similmente fa con il calice del vino.

 

Nel mondo biblico “il pane indica anzitutto l’alimento di cui nessuno può fare ammeno e addirittura, in metafora, il cibo in generale. Poichè mantiene la vita quotidiana, proviene dalla potenza del Creatore che lo dà a colui che glielo chiede. Soprattutto in un contesto pasquale, il pane ricorda la benevolenza di YHWH verso il popolo prediletto e quindi la sua costante presenza. Il pane è destinato a essere condiviso, soprattutto con l’affamato: è questo il gesto predestinato a essere condiviso, soprattutto con l’affamato: è questo il gesto primordiale dell’uomo giusto. Fin dall’esperienza della manna, donata dal cielo per sostenere Israele nel deserto, il pane aveva finito coll’indicare anche il Cibo escatologico” (Léon-D. 64).

 

Al pane Gesù non associa l’acqua, ma il vino che nella Bibbia “simboleggia facilmente il lato bello dell’esistenza, l’amicizia, l’amore, la gioia; nei banchetti è unito alla musica; infine indica la felicità celeste” (ibidem, 65). C’è quindi un’espressione di felicità, di pienezza di vita.

 

“Prendendo in mano il pane e il calice, Gesù si mette in relazione col cibo quotidiano e insieme festivo. Proprio sotto questi due aspetti egli assume la creazione come sorgente di vita e di comunità tra gli uomini. Collegandola a Dio con la benedizione (o l’azione di grazie), Gesù aumenta infinitamente il valore della sua azione. Nelle sue mani la creazione, presente nel pane e nel vino, è anch’essa in relazione col Creatore e capace di esprimerne la presenza” (ibidem).

 

L’asse orizzontale dell’ultima cena manifesta un carattere relazionale: “L’azione è totalmente orientata sui discepoli, come mostrano chiaramente sia i verbi “dare” e “dire a”, sia i pronomi personali utilizzati. Ai discepoli viene comandato di prendere (Mc/Mt), oppure si dichiara che il mio corpo è dato e il mio sangue è versato per voi (Lc/Paolo), dove l’io e il voi si corrispondono indissolubilmente. Naturalmente in tal modo viene annunziata la morte imminente, essa però viene ricordata solo in funzione dei discepoli.

 

Insomma gesti e parole di Gesù acquistano il loro senso soltanto in questo rapporto con in commensali. Questi gesti e parole però devono essere capiti anche dal punto di vista di Gesù stesso. Allora rivelano che Cristo è dominato da un profondo desiderio: fare di questo gruppo “la sua" comunità nel mondo, quella comunità viva che sarà creata dalla sua morte e dalla sua vita accanto a Dio... Questo morente dispone dell’avvenire: certamente la morte separa, ma da essa proviene l’alleanza che, in Gesù che torna la Padre, unisce i discepoli a Dio”  (ibidem, 66-67).

 

L’asse temporale infine fa confluire nel momento della cena il passato del popolo d’Israele (Pasqua, alleanza) e il passato della vita di Gesù, che con il dono di sè stesso nel pane e nel vino riassume l’atteggiamento di donazione manifestato nella vita pubblica verso gli uomini rappresentata ora dai discepoli che hanno condiviso la sua missione. Ma il presente si apre pure sull’avvenire: sulla morte imminente; sul tempo della Chiesa in cui i discepoli rievocheranno i gesti della cena; sul compimento del regno, dove Gesù è certo di bere il vino nuovo insieme ai discepoli.

 

Dopo questo sguardo sintetico, consideriamo il carattere e i contenuti delle pericope.

 

Tradizione cultuale. Tutti gli autori sono oggi d’accordo nel riconoscere ai racconti dell’istituzione un carattere liturgico (cf. Jeremias, 130-137; MS 8, 232-233). Ciò non vuol dire che le narrazioni non siano storiche nel loro nucleo essenziale, ma che le redazioni che abbiamo risultano dalle tradizioni cultuali.

 

Per il Léon-Dufour l’ultima cena è stata riferita anche secondo una “tradizione testamentaria”, come pasto d’addio, presente soprattutto nel vangelo di Giovanni, ma con tracce in Mc/Mt e in modo particolare in Luca.

 

A noi interessa ora la tradizione cultuale.

 

Comunemente si riconoscono due tradizioni liturgiche: una rappresentata da Paolo/Lc e chiamata antiochena, l’altra di Mc/Mt che si suppone proveniente da Gerusalemme o Cesarea. Sulla proprietà delle due tradizioni i pareri sono discordi, come pure sono diversi i risultati dei tentativi di ricostruzione della tradizione originaria comune (xcf. MS 8, 233-238).

 

Le particolarità delle tradizioni si notano dalla sinossi dei testi: le terremo presenti nella ricerca dei contenuti delle narrazioni che ora cercheremo di mettere in rilievo.

 

Le parole sul pane. secondo le quattro narrazioni, Gesù prese il pane e dette la benedizione ( Paolo/Lc avendo reso grazie) lo spezzò, lo diede ai discepoli e disse:

 

“Prendete, mangiate, questo è il mio corpo” (Mt).

“Prendete, questo è il mio corpo” (Mc).

“Questo è il mio corpo che (è) dato per voi" (Lc).

“Questo è il mio corpo che (è) per voi” (Paolo).

 

Questo (tutto): il pronome che non si riferisce soltanto alla realtà materiale del pane, ma a ciò che quel pane significa nel gesto di Gesù.

 

Il mio corpo (to soma mou). Sappiamo che nel linguaggio sematico la parola corpo indica la persona in quanto può esprimersi ed entrare in relazione con gli altri. Il termine soma nell’uso dei LXX può indicare anche un cadavere, quindi nei nostri testi potrebbe pure esprimere il corpo di Gesù che sta per subire la morte.

 

Che (è) dato (Lc) per voi (hyper hymon). Nel N. T. la preposizione hyper indica un’azione a vantaggio di qualcuno. Dato il contesto, molti autori riferiscono l’espressione al corpo di Cristo che sta per essere sacrificato sulla croce. Qualcuno la riferisce direttamente al cibo del suo corpo che Cristo offre perchè abbiamo la sua vita.

 

(Questo) è (touto estin). La precisazione del significato di è (estin) è particolarmente importante: esprime un paragone o un’identità? Le risposte sono spesso determinate dalla fede che si ha nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.

 

Non ha importanza affermare che nell’originale aramaico il verbo copulativo sarebbe sottinteso: di fatto il testo greco ha avuto bisogno di esprimerlo.

 

Gli autori interessati a negare l’identità tra il pane e il corpo di Cristo hanno fatto leva su quei passi in cui il verbo essere esprime un paragone: “Io sono la vite vera” (Gv 15, 1); “Io sono la porta” (Gv 10, 9); oppure è usato nel senso di significare, essere figura di: “La pietra era Cristo” (1 Cor 10, 4) ecc.

 

L’argomento ha il suo peso, ma non è costringente. Nei testi in cui il verbo essere esprime un paragone (come nelle parabole del regno) è una cosa piuttosto oscura che viene chiarificata con una cosa ben conosciuta presa dal suo significato  universale (p. e. il regno è simile a una rete, a un seminatore); nelle parole dell’istituzione invece è una cosa ben conosciuta e determinata che viene identificata a una persona concreta (cf. Betz, II/1, 56-57). In altri casi (Io sono la luce, la porta, la vite) non è tanto il verbo essere che cambia significato, quanto il predicato che viene elevato a significare qualcosa che sorpassa la usa realtà concreta.

 

Resta vero comunque che il verbo essere può significare sia identità che similitudine: è il contesto a determinare il senso.

 

 

Non pensiamo che siano molto determinati neppure le osservazioni di carattere linguistico (cf. Léon-Dufour, 127-130). L’argomento decisivo resterà la lettura che ne ha fatto la Chiesa.

 

Le parole sul calice. Il testo riguardante il calice è più ricco di quello del pane; si può dire che “è di una densità eccezionale, in quanto ricapitola in poche parole il senso e la portata dell’esistenza di Gesù di Nazareth” (Léon-D. 137).

 

Le principali differenze delle redazioni sono tra la tradizione antiochena “Questo calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue” (Paolo/Lc) e quella di Mc/Mt; Questo è il mio sangue nell’alleanza”. Comunque le due tradizioni concordano nell’unire strettamente il sangue versato e l’alleanza.

 

L’alleanza richiama tutta la teologia dell’antico patto tra Dio e Israele, alleanza che stabilisce una comunione di vita ed esige che il popolo sia in armonia con la volontà di Jahveh. Di fronte alla durezza e alle infedeltà d’Israele, Dio promette di stabilire una nuova alleanza in cui darà uno spirito nuovo capace di trasformare il cuore dell’uomo. E’ questa nuova alleanza che Gesù proclama realizzata nel suo sangue.

 

Il mio sangue dell’alleanza richiama evidentemente il testo dell’alleanza mosaica: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso per voi” (Es 24, 8). Anche qui è necessario appellarsi al significato del sangue nell'A. T. Esso era considerato come “anima della vita” che appartiene a Dio: versato sull’altare viene restituito a Dio come sacrificio di comunione o di espiazione.

 

Di questo sangue della nuova alleanza è detto che è “versato”. Il sangue versato si riferisce alla passione a cui Gesù va incontro: “Come il sangue univa l’altare e il popolo, così Gesù è contemporaneamente dalla parte di Dio mediante la sua missione e la sua obbedienza e dalla parte degli uomini mediante la sua morte. In tal modo mette in rapporto Dio e gli uomini: ed è il sangue che li unisce” (Léon-D. 146).

           

La tradizione Mc/Mt precisa che il sangue è versato “per molti”  (hyper (peri) pollon), “in remissione dei peccati” (Mt).

 

Queste espressioni si riferiscono chiaramente a Is 53,12, cioè alla profezia del Servo di Jahveh di cui si dice che “effuse la sua anima fino alla morte.... allorché egli stesso portava il peccato delle moltitudini (hetà-rabbim: hamartias pollon)”.

 

I “molti” sono tutti, in quanto traduce il rabbim ebraico che “può avere un significato inclusivo (la totalità che comprende molti singoli)” (Jeremias, 200). Il richiamo alla figura del Servo di Jahveh ci parla del mediatore della nuova alleanza: “Ciò che il profeta contempla non è più il sangue delle vittime animali che raffigurava ritualmente l’impegno del popolo, ma è l’impegno vissuto da un uomo, dal Servo fedele sino alla morte: come alleanza del popolo, col dono della propria “anima” egli porta a compimento ciò che significava il rito del sangue, la comunione con Dio” (Leon-D. 151).

 

Tutti questi accenni vanno illuminati da una teologia dell’alleanza, del sacrificio, della redenzione e dei suoi effetti.

 

La memoria. Nella tradizione antiochena, due volte in Paolo, una in Luca, viene riportato il comando: “Fate questo in memoria di me (eis ten emen anamnesin)”.

 

Da alcuni anni le parole “in memoria” hanno attirato l’attenzione degli studiosi, che vedono nell’espressione dell’ultima cena la traduzione dell’ebraico le-azkarah o le-zikkaron, derivanti da ZKR (ricordare). Queste due espressioni, tradotte dai LXX con eis anamesis e eis mnemosinon sono molto usate nel linguaggio cultuale dell’A. T. (per un’esposizione dettagliata cf. Thrian, 21-147).

 

In modo particolare ci si è fermati a considerare la pasqua come “memoriale” della liberazione d’Israele dall’Egitto: “Questo giorno sarà per voi un ricordo (le-zikkaron) e lo celebrerete come la festa in onore di Jahveh” (Es 12, 14). La liberazione dall’Egitto era un evento compiuto una volta da Dio, ma tutte le nazioni si sentivano partecipi di quell’evento che aveva fatto di Israele un popolo libero. Rabbi Gamaliele insegnava: “In ogni generazione l’uomo deve considerarsi come se fosse stato tratto dall’Egitto, perciò è detto: E’ a causa di quanto Jahveh ha fatto per me nell’uscita dall’Egitto (Es 13, 18). Perciò siamo obbligati a ringraziare... a lodare colui che ai nostri padri e a noi ha fatto queste meraviglie”.

 

Il passaggio dalla pasqua ebraica, la pasqua della nuova e definitiva liberazione. Celebrando l’eucaristia in sua memoria, i cristiani rivivranno l’evento pasquale di morte e risurrezione, partecipando alla potenza del suo dinamismo: “Nel quadro rituale dello Zikkaron (memoriale) dell’antica pasqua che tendeva a ricondurre i fedeli, attraverso la sacramentalità degli alimenti del banchetto, nella situazione di liberazione collettiva creata dall'avvenimento salvifico dell’Esodo, Cristo offre ai discepoli il suo corpo e il suo sangue sotto i segni del pane e del vino. egli non li dà a loro come semplici simboli, ma perchè in ciascuno dei suoi e si realizzino, al ritmo della storia umana, l’effetto compiuto una volta per tutte nell'evento morte-resurrezione: la salvezza definitiva” (Tillard, 112-113).

 

Ci si è domandati: l’ultima cena fu una cena pasquale? La risposta definitiva non è stata ancora data (cf. la confutazione degli argomenti portati da Jeramias in favore del banchetto pasquale in Léon-Dufour, 290-292). Comunque anche chi non riconosce nell’ultima cena un vero banchetto pasquale, ammette che i sinottici la descrivono nella cornice pasquale, anche se “la festa celebrata è propriamente quella di Gesù: si tratta della sua Pasqua personale” (ibidem, 186).

 

La prospettiva escatologica.I racconti dell’ultima cena hanno pure un’apertura sul compimento del regno: “  In verità vi dico che non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno quando lo berrò nuovo nel regno di Dio” (Mc 14, 25; cf. Mt 26, 29; Lc 22, 16.18). Anche in 1 Cor 11, 26 si dice: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finchè egli venga”.

 

Tralasciamo i problemi particolari e i tentativi di soluzione, per riassumere invece il senso di questi logica escatologici. Seguiamo il Lèon-Dufour: “Senza dubbio Gesù ha appena annunziato di versare il suo sangue, senza dubbio dichiara che non festeggerà più la Pasqua sulla terra, ma in questo momento afferma con tutta la chiarezza di essere animato da una fiducia perfetta: egli è certo di partecipare al banchetto dell’ultimo giorno. Se offre il suo corpo e il suo sangue, lo fa nella sicura prospettiva della gioia finale.

 

Invece di fermarsi sulla morte prossima, ancor meno sulle sofferenze e sull’ingiustizia che essa implica, Gesù rivolge totalmente lo sguardo alla vittoria di Dio. Un termine qualifica questo successivo: il vino del banchetto celeste viene detto “nuovo” (Kainon), cioè non “giovane” in rapporto a “vecchio”, ma radicalmente diverso, inventato, inaspettato, proprio come la terra nuova e i cieli nuovi... L’azione cultuale vale soltanto nel tempo intermedio; la presenza del “corpo”di Gesù, manifestata attraverso il pasto preso nel nome di Gesù, ha il suo pieno significato soltanto in funzione del banchetto escatologico al quale prepara” (193-194).

 

Benché fuori delle parole dell’istituzione, il riferimento escatologico è presente anche in Paolo, il quale dichiara che l’assemblea, con la celebrazione eucaristica, proclama la morte del Signore “finchè egli venga (achri ou elethe)”. Quest’ultima  frase esprime un’idea di finalità, di attesa, come dire: “fino a quando, finalmente, verrà”. E’ l’espressione di un ardente desiderio che accompagnerà le assemblee cristiane: Maranatha:  Signore vieni!

 

           

LA CENA DEL SIGNORE IN S. PAOLO.

In 1 Cor 10-11, oltre al testo dell’istituzione già esaminato, ci sono altri dati preziosi per la dottrina eucaristica.

Paolo non ha elaborato una teologia dell’eucaristia. Anzi, se i corinzi non gli avessero posto dei problemi, non ne avrebbe parlato affatto (i critici avrebbero così affermato con sicurezza che l’Apostolo la ignorava!).

L’occasione per ricordare l’eucaristia è offerta dal problema delle carni immolate agli idoli e dagli  abusi che si verificano quando i fedeli si radunano per celebrare la cena del Signore.

 

I cristiani potevano mangiare le carni degli animali che venivano sacrificati alle divinità pagane e che in parte erano vendita anche ai mercati? Per sè, se la carità non consiglia di fare altrimenti a motivo dello scandalo, il semplice mangiare delle carni immolate a idoli che non sono niente non crea alcun problema. Diverso è il caso di partecipazione ai  conviti cultuali pagani. Paolo teme che i neo-convertiti possano ricadere nell'idolatria, quindi li esorta ad agire con prudenza e senza presunzione.

 

E’ qui che l’apostolo passa a considerazioni di carattere dottrinale: “Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria. Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione (poterion tes eulogias) che noi benediciamo no è forse comunione (Koinoina) con (tou) il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa? No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demoni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione (Koinonous) con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni” (1 Cor 10, 14-21)

 

Paolo ragiona partendo dalla mentalità comunemente condivisa che la partecipazione a un parto cultuale crea una comunione vitale tra i commensali e le divinità a cui sono offerte le vittime. Ora, dietro agli idoli, che sono nelle nullità, ci sono i demoni che sono reali, quindi partecipare a un convito cultuale pagano significa entrare in comunione con i demoni. Ciò è incompatibile con la partecipazione alla mensa del Signore, al calice e al pane che creano comunione (Koinonia) con il sangue e il corpo di Cristo.

 

Il termine Koinonia “indica che fra due esseri esiste una certa relazione, in rapporto a qualche cosa, una comunione di pensiero o una comunità di interessi capace di fondare un tipo di società... (nel nostro testo) l’espressione sembra oltrepassare il significato di partecipazione per indicare un’unione molti intima, una comunione veramente personale tra il fedele e Gesù Cristo, sia direttamente, sia attraverso il pane e il calice” (Léon-Dufour, 201-202).

 

Il v. 17 esprime secondo alcuni l’unità dei fedeli (Chiesa) creata dalla partecipazione all’unico pane. Ma forse nel contesto viene messa in primo piano l’ idea dell’unicità della comunione con Cristo la cui vita, mediate il pane eucaristico, si diffonde nella totalità dei credenti, alimentando il suo corpo ecclesiale, rendendo cioè la Chiesa un solo corpo con il suo Capo.

 

In 1 Cor 11, 17-34 Paolo affronta il problema degli abusi che pur si verificano nelle assemblee in cui si celebra la cena del Signore. Nel brano troviamo il primo documento che ci parla del rapporto tra le assemblee liturgiche cristiane e l’ultima cena.

 

L’Apostolo rimprovera i Corinzi perchè ci sono tra loro divisioni e discriminazioni che sono in stridente contrasto con il significato della cena del Signore. Deve essere rispettato il carattere eminentemente religioso e comunitario della celebrazione: “ E’ mai possibile celebrare l'eucaristia disinteressandosi della presenza die fratelli, o standosene ognuno per conto proprio? La conclusione s’impone: il pasto del Signore presuppone uno stare insieme, un far corpo nell’assemblea: nessun Eucaristia è possibile senza queste condizioni” (Léon-D. 210).

 

Il comportamento durante le assemblee eucaristiche è una cosa molto seria. Paolo ricorda ed esorta: “Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane e beve il calice del SIgnore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perchè chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve le propria condanna. E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1 Cor 11, 27-30). Viene esclusa così ogni concezione”magica” della partecipazione all’eucaristia, che può addirittura diventare motivo di condanna, se chi vi partecipa non esamina la propria condotta. Difficile precisare se l’Apostolo consideri solo la condotta dei corinzi nei confonti dei fratelli nell’assemblea (contesto immediato) o se voglia dare una norma generale. Tuttavia, anche se il testo dovesse riferirsi direttamente solo al caso in questione, il principio della condanna per chi mangia indegnamente il corpo del Signore deve pur valere per altri casi.

 

L’EUCARISTIA NEL VANGELO DI GIOVANNI.  

E’ un fatto strano: Giovanni che si diffonde lungamente nel riferire i discorsi di Gesù nell’ultima cena, non parla dell’istituzione dell’eucaristia.

 

La spiegazioni di questo fatto sono varie e sono discorsi i pareri degli esegeti sulla dottrina sacramentale del vangelo giovanneo.

 

Secondo X. Léon Dufour, Giovanni tende a collegare i sacramenti con i vari momenti della vita di Gesù Cristo (vedi i brani in cui si parla dell’acqua a cui Cristo conferisce il significato simbolico), quindi, “se Giovanni non riferisce il racconto dell’istituzione (quasi ritenesse inutile ridire ciò che si conosceva e si praticava già molto bene), egli ha cura di legare esplicitamente questo rito, questa liturgia sacramentale, alla fede, all’adesione personale al ministero di Gesù. Ed è per questo ch’egli è il solo a riferire, dopo la moltiplicazione dei pani, il discorso di Gesù in cui viene messo in luce il vero senso di questo miracolo” (I Vangeli e la storia di Gesù, Cinisello Balsamo 1986,133).

 

La maggior parte degli esegeti tuttavia ammette che il discorso sul pane vivo (Gv 6) abbia carattere eucaristico, anche se resta problematico dire in che senso la sia.

 

La difficoltà maggiore per attribuire un significato eucaristico a Gv. 6, 48-58 è che il concetto cristiano di eucaristia per gli uditori di Gesù era totalmente sconosciuto: come poteva esigere che lo avessero capito? D’altra parte è anche incontestabile che, quando fu scritto il vangelo di Giovanni, espressioni come “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” non potevano non essere intese come parole riferite alla cena del Signore che tutti i cristiani celebravano.

 

Da questi dati di fatto nascono le diverse interpretazioni.

Troppo facile e tutta da provare la soluzione di chi vede nei passi più evidentemente eucaristici interpolazioni di un redattore finale del vangelo preoccupato di mettere d’accordo la dottrina giovannea incentrata sulla fede e la pratica sacramentale della Chiesa.

Il tutto va affrontato così com’è, tenendo presente il modo di procedere di tutto il vangelo di Giovanni.

 

Non possiamo seguire le lunghe e complesse interpretazioni di Gv 6 (cf. A. Feuillet, Etudes Johaniques, Paris 1962, 47-129; Léon-Dufour, 241-258; S. A. Panimolle, in “La cena del Signore”, 112-124). Cerchiamo solo di coglierne gli orientamenti e gli insegnamenti essenziali

 

Senza negare il fondamento storico del discorso sul pane di vita, riteniamo tuttavia che nella forma in cui è stato redatto contiene l’interpretazione data per la luce dello Spirito, dopo che Cristo ha compiuto l’opera di salvezza e la Chiesa ha iniziato il suo cammino. Diciamo con il Léon-Dufour: “L’unica lettura valida è infatti quella che non dimentica mai il rapporto che il presente dello Spirito ha, per l’evangelista, con il passato di Gesù, l’individuo di carne visto in Israele. In definitiva, sono proprio questi due tempi che il testo testimonia, e l’evangelista vuol dimostrarci che il primo simboleggia il secondo e che il secondo, senza di esso, sarebbe soltanto una gnosi incosciente” (252).

 

Il Feuillet vede alla base di tutto il discorso (Gv 6, 26-71) tre tempi biblici: quello della manna come simbolo di un nutrimento spirituale, quello del banchetto messianico e quello del convito della sapienza. Si tratta di una successione di temi intimamente collegati e culminati nelle dichiarazioni più esplicite sull’eucaristia.

 

Alla folla che chiede un segno prodigioso come quello di Mosè (manna) per credere il lui, Gesù risponde che il vero pane è quello che da il Padre dal cielo (32-33), è Gesù stesso, “il pane della vita” (35), cioè il pane che dona la vita, che si ottiene aderendo a Cristo, credendo in lui. Come è promesso per il banchetto messianico (cf. Is 65,13) chi mangerà di questo pane non avrà più fame, non avrete più sete.

 

Gesù fa anche propri gli inviti della Sapienza (cf. Prov 9, 1-6) identificandosi così ad essa. Perchè gli uomini possano partecipare al convito della sapienza è necessario che il Padre li inviti, li istruisca, li doni a Cristo. E di fatto il Padre vuole che gli uomini credano in cristo e da lui ricevano la risurrezione per la vita eterna (36-47).

 

Fino a questo punto il discorso poteva anche intendersi dell’accoglienza, nella fede, della parola di Dio manifestata dalla Sapienza venuta ad abitare in mezzo a noi. Ma Gesù sviluppa il tema del pane di vita, presentandosi ancora come il pane vivo e affermando chiaramente che questo pane è la sua carne (sarx) immolata per la vita del mondo (47-51).

 

Di fronte all’obiezione dei giudei (52), Gesù incalza: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perchè la mia carna è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda” (53-55). Le parole di Gesù “sono di un verismo così accentuato che non possono essere prese in senso traslato per indicare l’interiorizzazione della rivelazione... il linguaggio di Gv 6, 53-58 appare così forte e crudo, che non può non applicarsi al sacramento dell’eucaristia, durante la cui istituzione il Cristo disse ai suoi discepoli, appunto di mangiare il pane che è il suo corpo e di bere il vino che è il suo sangue” (Panimolle, 117-118).

 

Si possono trovare punti di contatto tra Gv 6 e le pericope dell’istituzione. Oltre alle espressioni “mangiare la carne” e “bere il sangue”, c’è un richiamo la sacrificio del Servo di Jahveh: “La mia carne per la vita del mondo” (51), corrispondente al “mio corpo dato per voi” (Lc 22, 19) e al “sangue sparso per molti” (Mc 14, 24). In 6, 64 c’è amche l’annunzio del tradfimento di Giuda (cf. Lc 22,21).

 

Da notae che i frutti portati dal mangiare la carne e bere il sangue, cioè risurrezione e vita eterna (54) sono gli stessi che si ottengono in dipendenza dalla fede nel Figlio di Dio (40).

 

Possiamo dire: “Chi crede al Cristo e alla sua dottrina si nutre già attualmente il Cristo, Parola uscita dalla bocca di Dio e Sapienza di Dio. Le relazioni intime che esistono tra la parola di Dio e l'Eucaristia, dato tradizionale nella Chiesa, trovano il più soldi fondamento in Gv 6” (Feuillet, 123).

 

C’è come un’assimilazione progressiva a Cristo che inizia e si sviluppa nella fede, ma trova la realizzazione più profonda nell’unione vitale che si stabilisce tra il Cristo e i discepoli che mangiano la sua carne e bevono il suo sangue.

 

L'EUCARISTIA NELLA STORIA DELLA CHIESA

Se nella Scrittura riusciamo a scoprire i fondamenti della teologia eucaristica, è perchè leggiamo la parola di Dio alla luce di una prassi liturgica che, attestata già unanimemente dai primi documenti, non ha mai cessato di essere al centro della vita della Chiesa.

 

Proprio per il suo ruolo vitale e centrale il mistero eucaristico è stato oggetto di attenta considerazione, di approfondita meditazione, oggetto anche, come è successo per i maggiori misteri della fede, di controversie ed errori e di relative decisioni del magistero della Chiesa.

 

E’ bene quindi, prima di affrontare la parte sistematica, scorrere lungo i secoli e vedere i punti nevralgici di uno sviluppo dottrinale che ha arricchito e precisato la comprensione ecclesiale dell’eucarestia.

 

Seguiremo l’esposizione del Betz, che è uno specialista in materia (vedere MS 8, 259-323). Qui diamo soltanto un breve schema di quello che stitueremo nel testo indicato.

 

Troviamo la prima teologia eucaristica già nei Padri apostolici e negli apologisti, ma soprattutto nelle più antiche anafore che ci mostrano come la Chiesa abbia formato le sue celebrazioni della cena del Signore assumendo molti elementi delle preghiere giudaiche, sopratutto della todàh e della berakà (cf. le opere di Girado e di Boyer).

 

Testimonianze più ricche ci vengono offerte dai Padri dei secoli successivi, sia orientali che latini. Nei Padri orientali è più accentuata la presenza dell’evento salvifico nell’azione liturgica, in cui opera, come attore principale, il Cristo risorto consacrando gli elementi e distribuendoli ai commensali (cf. l’opera più dettagliata del Betz, I/1).

 

Nei Padri latini, pur rimanendo presente l’idea fondamentale della memoria dell’opera salvifica, troviamo un maggior interesse rivolto agli elementi del convito. Particolare influenza nell’epoca successiva ebbe la dottrina di S. Agostino, dottrina che suscita ancora molte discussioni (cf. anche A. Trapè in “La cena del Signore”, 232-243).

 

Nel medioevo è sempre presente la fede che mediante l'eucarestia si partecipa al sacrificio di Cristo ed è molto sviluppata la dottrina del rapporto tra eucarestia e Chiesa (cf. De Lubac). Ma il problema più controverso fu quello della realtà del corpo eucaristico di Cristo. Un primo momento di tensione fu creato dalle affermazioni realiste di Pascasio Radberto (a. 844) a cui si contrappone il simbolismo di Ratrammo. Poi il problema esplose con la negazione della presenza reale da parte di Berengario di Tours (+ 1088), condannato da diversi sinodi. Quest’ultima controversia favorì lo sviluppo della dottrina sacramentale in genere 3, per eucaristia, portò allo studio della “sostanza” delle specie eucaristiche e della loro mutazione, studio che approfondirono insieme gli altri elementi, i grandi dottori della scolastica.

 

Con la Riforma protestante l’eucaristia divenne oggetto di lotte molto più aspre e radicali di quelle del passato.

 

I riformatori si trovarono praticamente d’accordo nel rifiutare il carattere sacrificale della messa. Non sono d’accordo invece sul problema della presenza di Cristo nel pane e nel vino: Lutero è orientato verso la consustanziazione; Zwingli nega la presenza reale di Cristo nell’eucaristia che è solo in segno della sua presenza; Calvino sostiene che nell’eucarestia non riceviamo la vera carne di Cristo, ma la vita che scaturisce dalla sostanza della sua carne.

 

Il Concilio di Trento definì la dottrina cattolica del sacrificio della messa e della presenza vera, reale e sostanziale di Cristo nel sacramento dell’altare, con tutte le conseguenze che derivano da queste due verità.

 

La teologia post-tridentina si occupò principalmente del problema della transustanziazione e del carattere sacrificale della messa.

 

Un notevole rinnovamento di tutta la teologia eucaristica si è verificato nel nostri secolo, soprattutto negli ultimi decenni. I risultati e le ipotesi più recenti verranno tenuti presenti nella seconda sezione.

 

 

 

SINTESI

SEZIONE II - Sintesi teologica

 

L’importante enciclica di Paolo VI “Mysterium fidei” (1965) ricorda che “l’eucarestia è un altissimo mistero, anzi propriamente, come dice la sacra liturgia, il mistero della fede.... E’ dunque necessario che specialmente a questo mistero ci accostiamo con umile ossequio, non seguendo umani argomenti, che devono tacere, ma aderendo fermamente alla divina Rivelazione” (6).

 

Con queste parole non si nega che si debba cercare di comprendere il misteri eucaristico con tutte le risorse della ragione umana, ma si sottolinea il fatto che l’investigazione non può minimamente prescindere dall’ambito della fede e che si deve seguire “come una stella il magistero della Chiesa” (8), dato che ci troviamo di fronte a un mistero di fede così impervio alla ricerca puramente umana.

 

Riassumendo l’insegnamento secolare della Chiesa, il Conc. Vat. II dice “Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua risurrezione: 1º sacramento di pietà, 2º segno di unità, 3º vincolo di carità, 4º convito pasquale nel quale si riceve Cristo, 5º l’anima viene ricolmata di grazia e ci è dato il 6º pegno della gloria futura” (SC 47).

 

Non è facile esporre la dottrina eucaristica nei suoi vari aspetti, con i suoi molteplici problemi, soprattutto perchè è necessario esaminare separatamente dei dati che di fatto sono strettamente collegati tra loro, come il carattere sacrificale della messa e la presenza reale di Cristo sotto la specie del pane e del vino. Tuttavia abbiamo il vantaggio di accostarci a un misteri di fede di cui già abbiamo considerato gli elementi essenziali contenuti nella rivelazione e nella storia dei dommi di cui abbiamo pure una certa conoscenza globale.

 

Possiamo quindi affrontare i singoli problemi la cui chiarificazione permetterà di formarci una comprensione e una sintesi più ricca.

 

PRESENZA DI CRISTO NELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

           

Tra le varie strade seguite dai teologi, pensiamo sia preferibile scegliere quella che parte dalla considerazione generale della presenza di Cristo nella celebrazione dell’eucaristia. 

 

Scrive il Durrwell: “L’eucaristia è fondamentalmente presenza. Ai nostri giorni, si preferisce fermare l’attenzione su altri aspetti, sul pasto comunitario, sulla festa della fraternità e della spartizione, sull’assemblea di lode, o anche sul cibo santificante di vita eterna. Ma prima di tutto e più di tutto ciò, l’eucarestia è la presenza. Tale fu l’esperienza prima, la mistica eucaristica primitiva: le comunità cristiane hanno riconosciuto il Signore in mezzo a loro durante questa cena. L’eucaristia è il sacramento della risurrezione di Gesù fra i suoi discepoli; Luca lo fa capire nel racconto in cui il Signore si manifesta a due discepoli “nello spezzare il pane” (24, 35)... Già dal nome che portava l'eucarestia-mensa o cena del Signore- si sapeva che la comunità è convocata dal Risorto e riunita alla sua presenza” (43-44).  

 

Che questa sia stata la convinzione generale della Chiesa dei primi secoli è dimostrato dalle numerose testimonianze dei Padri la cui dottrina, studiata con ampia documentazione dal Betz, viene così riassunta: “La patristica pone la presenza reale del corpo e del sangue nell’ampia cornice dell’avvenimento eucaristico totale. Per essi l’eucarestia è sempre prima di tutto avvenimento, azione, actio... Avvenimento, in cui Dio è direttamente attivo e opera la salvezza soprannaturale della sua creatura, porta a compimento la storia della salvezza. Questa ha il suo perenne centro, a cui rimane per sempre legata, nell'opera salvifica di Gesù Cristo. La storia della salvezza tuttavia non è conclusa con la morte di Gesù: essa abbraccia anche tutto il tempo della Chiesa. Perchè in essa domina Gesù come Kyrios glorificato e agisce in modo particolare sui suoi discepoli. E ciò avviene proprio nella celebrazione eucaristica. E’ una concezione fondamentale della dottrina patristica dell’eucarestia che è Cristo stesso colui che invita al banchetto, si fa corpo nel cibo e nutre i suoi fedeli con la sua carne e il suo sangue. Così egli è presente nella celebrazione, non soltanto come il Dio onnipresente, che sta a guardare benevolo e tranquillo le azioni dei suoi seguaci e accetta la loro adorazione. Egli è presente proprio come operatore e titolare della celebrazione eucaristica che ora si sta compiendo. Egli è Initiator di questo avvenimento non solo in quanto ha istituito questo banchetto e ha comandato di ripeterlo, ma anche come colui che sta dietro questa celebrazione ora compiuta, la sostiene e produce. In continuazione dell’agostiniano “Christus est, qui baptizat”, possiamo considerare come formula della fede dei Padri: “”Christus est, qui consecrat; Christus est, qui coenam dat”. Così troviamo nell’eucaristia della Chiesa un’attiva presenza personale del Cristo, invisibile perchè ora è in un modo di esistere pneumatico” (I, 1, XXIII).

 

Riteniamo particolarmente importante la testimonianza dei Padri, perchè in essa possiamo scoprire come le comunità ecclesiali hanno ricevuto dalla Chiesa apostolica il mistero eucaristico e come lo hanno sentito e vissuto. Trattandosi dell’esperienza centrale di fede della Chiesa, l'eucaristia va compresa proprio alla luce di ciò che le comunità cristiane hanno percepito nelle assemblee liturgiche, nelle quali il gesto compiuto da Gesù nell’ultima cena è diventato il rito in cui i fedeli hanno sperimentato la presenza viva del Signore risorto e della sua offerta sacrificale e del suo corpo e del suo sangue dati in cibo e bevanda di vita eterna.

 

L'estensione fatta dal Betz delle parole di S. Agostino “Christus est qui baptizat” all’azione dello stesso Cristo nella celebrazione eucaristica può far pensare che la presenza del Signore nel rito eucaristico non differisca dalla sua presenza nella celebrazione degli altri sacramenti (vedi sopra, p. 7-9). I documenti del magistero già esaminati i parlao però di una presenza particolare che si verifica soltanto “nel sacrificio della messa sia nella presenza del ministro... sia soprattutto sotto le specie eucaristiche” (SC 7): le testimonianze dei Padri confermano la peculiarità di questa presenza che appunto è percepita così viva in quanto è qualitativamente più intensa di quella che si verifica negli altri riti sacramentali.

 

Ora, se ci domandiamo in che consiste questa peculiarità, pensiamo si debba rispondere che va vista proprio nella presenza reale e sostanziale di Cristo sotto le specie eucaristiche. Se si nega o si attenua il realismo di questa presenza, non si comprende più la centralità e l’eminenza dell'eucaristia nella vita della Chiesa; mentre la fede nella presenza reale e sostanziale del corpo e del sangue di Cristo spiega bene, oltre al valore della comunione, come nell'eucaristia Cristo sia particolarmente sentito presente in mezzo all’assemblea e come particolarmente presente sia percepito il mistero salvifico della morte e resurrezione di Cristo. In questo senso il concetto di presenza unifica i vari aspetti dell’eucarestia, che vanno perciò studiati alla luce di questa verità fondamentale.

 

Lo stesso Betz, nella riflessione sistematica scritta per “Mysterium salutis” articola la presenza di Cristo nell’eucaristia in tre aspetti:

 

“1. La presenza operante personale e pneumatica (presenza attuale) del Cristo glorioso come prinipalis agens nell’azione sacramentale (la principale presenza attuale);

 

2. La presenza anamnestica della sua opera di salvezza compiuta un tempo (presenza attuale anamnestica, memoriale);

 

3. La presenza sostanziale della persona fisica di Cristo sotto la specie del pane e del vino, che nella scuola viene definita semplicemente presenza reale” (MS 8, 329).

 

Possiamo servirci, come linea direttiva, di questo schema, ricordando però che i vari aspetti del mistero eucaristico vanno sempre considerati alla luce della sua unità.

 

PRESENZA OPERANTE DI CRISTO NELL’ASSEMBLEA PRESIEDUTA DAL SACERDOTE

 

L’eucaristia è il sacramento di Cristo che, con la sua morte, viene presso i suoi e realizza in loro la salvezza che è in lui” (Durrwell, 48).

 

Secondo il Durwell infatti, Gesù mediante la sua morte viene glorificato e ritorna a noi con la pienezza dei doni salvifici: “Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perchè ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3, 26).

 

La Chiesa dei Padri ha considerato il Cristo presente nella celebrazione eucaristica sia come dispensatore dei doni sacramentali, sia come sommo sacerdote del sacrificio eucaristico.

 

Teofilo di Alessandria scrive: “Cristo oggi ci ospita, oggi Cristo ci serve, Cristo, l’amico degli uomini, ci offre il riposo... il Figlio di Dio dà riferimento, il Dio-Logos divenuto carne ci incoraggia ad andarci” (PS. Cirillo, Hom. 10 in coen. myst.). E Giovanni Crisostomo: “Il sacrificio è lo stesso sia che lo offra questo che quello, sia Paolo che Pietro. Si tratta della stessa cosa: quello  che Cristo diede ai suoi discepoli e quello che ora compiono i sacerdoti. E quest’ultimo non è minore del primo, perchè anche quest’ultimo non è consacrato dagli uomini ma da colui che consacrò il primo” (In 2 Tim. hom. 2, 4).

 

Come sommo sacerdote, diventano tale per la sua morte e risurrezione, Cristo agisce attraverso la sua immagine che è il sacerdote: “E poichè Cristo nostro Signore si è offerto per noi in sacrificio e così divenne per noi effettivamente un sommo sacerdote, è un immagine di quel pontefice, bisogna pensare che rappresenta colui che ora è presso questo altare. Egli non vi offre il proprio sacrificio, non è neppure lui che è veramente il sommo sacerdote, ma è come in una specie di immagine che egli compie la liturgia di questo sacrificio ineffabile” (Teodoro di Mops. Cat. 15, 21).

 

Ciò che distingue la presenza attuale di Cristo nella celebrazione della eucaristia da quella che si verifica nelle altre azioni sacramentali è il fatto che “in essa l’autosacrificio di Cristo diviene presente insieme alla vittima in una maniera pure essa sacrificale. Cristo diviene presente come soggetto del sacrificio, quindi come gran sacerdote sacrificatore, ma anche come vittima, come soma didomenon” (MS 8, 335-336).

 

Si sa che questo esercizio del sacerdozio di Cristo ha sempre esigito un ministro ordinato che agisce in persona Cristi  (cf. Auer-Ratzinger, 355-357). Il magistero della Chiesa è dovuto intervenire per difendere questo punto. Già il Concilio Lateranense IV contro i valdesi e gli albigesi dichiarò: “Una sola è la Chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno può salvarsi, in cui lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e sacrificio, il cui corpo e sangue è veramente contenuto sotto le specie del pane e del vino nel sacramento dell’altare... E nessuno può compire questo sacramento se non il sacerdote validamente ordinato” (DS 802).

 

Il Concilio di Trento con i Riformatori che negavano la sacramentalità del sacerdozio ministeriale, definì: “se qualcuno  dice che con le parole “Fate questo in memoria di me”, Cristo non ha costiuito gli apostoli come sacerdoti, o non ha ordinato che essi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo e il suo sangue, A. S.” (DS 1752). Lo stesso concilio, parlando del valore propiziatorio del sacrificio della messa, dice: “Una e la stessa è la vittima, lo stesso è colui che, offertosi una volta sulla croce, si offre ora per il ministero del sacerdote” (DS 1743).

 

Il Concilio Vaticano II conferma la dottrina precedente dicendo che “nella loro qualità di ministri delle cose sacre, e soprattutto nel sacrificio della messa, i presbiteri agiscono in modo speciale a nome di Cristo (personam specialiter gerunt Christi)” (PO 13), ma si preoccupa di rimettere in rilie vo il ruolo attivo di tutto il popolo  di Dio (cf. J. De Baciocchi, in “Eucaristia, aspetti e problemi dopo il Vaticano II”, 44-48). La “Lumen Gentuim” precisa: “Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra i cui è investito forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo (In persona Christi) e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’eucaristia” (n. 10). E’ importante tener presente il ruolo del sacerdote e di tutto il popolo cristiano per capire l’integrazione della Chiesa nel sacrificio di Cristo di cui parleremo.

 

Oggi si discute con diverse prospettive sulla specificità del ministero della sacerdote nei confronti di tutta l’assemblea.

C’è chi lo vede come rappresentante del Cristo Capo di fronte alla Chiesa: “Il suo ruolo è di rappresentare il Cristo come capo del corpo , come l’altro rispetto alla Chiesa. Non impone una distanza nel senso peggiorativo del termine, ma una distinzione...  Il ministro ordinato è colui che sta i fronte e che interpella, riproducendo così la maniera in cui Cristo si offre all’uomo nel Vangelo: quella di un forestiero che interroga (Lc 24) e quella di un profeta che interviene. Nella sua grande “filantropia”, Gesù ha voluto che la sua presenza attuale nelle nostre vie fosse quella di un volto umano, non soltanto quella di un libro” (Manaranche, 83).

 

C’è invece chi, pur rispettando la sua specificità, lo vede più strettamente unito all’assemblea: “Il popolo cristiano non celebra altra messa che quella stessa del sacerdote. Il rapporto del sacerdote e dell’assemblea deve essere concepito in maniera concentrica, poiché il cerchi dell’assemblea eucaristica si traccia a partire dal sacerdote e dalla sua celebrazione. Ora, nulla è integrato al cerchi quanto il centro. al di là di una divisione facile e fittizia tra sacerdote e laici, in cui il ministro agirebbe da solo in nome di cristo, di fronte alla Chiesa, la teologia deve accettare il paradosso di cui tutti gli organismi viventi presentano un analogia, una funzione assolutamente unica, che tuttavia si integra interamente nell’attività di tutto il corpo e che è la funzione stessa di questo corpo. Il ministro eucaristico del sacerdote, di per sè unico, è quello della Chiesa al punto centrale della sua ministerialità... Ecclesiale, questo ministero è tuttavia quello di Cristo. Il sacerdote agisce in persona Christi, il suo nome per mezzo di lui. La Chiesa infatti esiste soltanto in virtù di colui che ne è “il capo, il principio” (Col. 1, 18), e dipende dal suo Signore anzitutto nel suo ministero centrale, quello del sacerdote. L'assemblea celebra l’eucarestia nella messa celebrata dal sacerdote, perchè ha il suo principio in Cristo, di cui il sacerdote è il rappresentante. L’unica unzione sacerdotale di Cristo giunge in maniera differente, fino alle estremità del corpo della Chiesa” (Durrwell, 136-138).

 

Sono modi diversi di considerare il rapporto tra il sacerdote e i fedeli nella celebrazione eucaristica, modi che non si discostano dall’insegnamento della tradizione e le magistero. Questo distacco invece si verifica in alcune eccezioni dettate da un democraticismo esasperato, che tendono a fare assorbire il celebrante dall’assemblea, la quale spesso finisce per assorbire anche il Cristo e a farne il garante delle proprie emozioni e dei propri progetti. Non è per questo che Cristo si rende presente nella celebrazione ma per essere il sacrificio della Chiesa e nutrirla con il suo corpo e il suo sangue.

 

IL SACRIFICIO EUCARISTICO

Abbiamo già detto che il punto in cui i Padri della riforma protestante concordano è il rifiuto del carattere sacrificale della messa (per la dottrina dei singoli riformatori, cf. La liturgia eucaristica, 73-76).

 

 

Alla base di questo rifiuto ci sono grossi problemi dommatici: “Per Lutero i sacramenti sono essenzialmente delle azioni di recezione, la cena è un dono di Dio all’uomo, un testamento, ma mai un dono dell’uomo a Dio quindi un sacrificio. Il sacrificio renderebbe la messa “opera”, idolatria... Il fondamento teologico più profondo di questa concezione è dato dal principio fondamentale della Riforma “solus Deus”, che vale anche per la cristologia e per la cena. Secondo esso soltanto Dio opera la salvezza. Si deve perciò tenere lontano anche da Gesù ogni giustizia delle opere e ogni legalismo. Neppure il sacrificio della croce avrebbe avuto il valore da Gesù in quanto uomo, ma sarebbe opera e prova della misericordia benevola di Dio verso di noi, il quale ha reso Cristo peccato al fine di operare la riconciliazione. Questa riduzione cristologica non lascia alcuno spazio per un sacrificio dell’uomo Gesù” (MS 8, 354).

 

E’ tutta la soteriologia che è coinvolta nel rifiuto della messa come sacrificio; e per elaborare una teologia del sacrificio eucaristico è necessario farsi un’idea più chiara del modo in cui Cristo ha realizzato il disegno salvifico del Padre, del valore della sua solidarietà con gli uomini, del sacrificio della croce, dell’associazione della Chiesa al sacrificio redentore.

 

Notiamo che lo studio più approfondito di questi problemi, soprattutto a livello biblico, ha portato molti teologi protestanti di oggi ad attenuare le rigidi tesi del protestantesimo primitivo. Comunque il Concilio di Trento si trovò di fronte al rifiuto netto del carattere sacrificale della messa, che poteva essere considerato tutt’al più sacrificio di lode e ringraziamento, ma mai un sacrificio propiziatorio. E’ a questo problema, con le questioni annesse, che è dedicata la Sessio XXII del Concilio.

 

Nel cap. 1, dopo aver detto che il Cristo, nuovo sacerdote, aveva sostituito l’imperfetto sacerdozio dell’ Antico Testamento, dichiara: “Pertanto il nostro Dio e Signore, anche se stava per offrire se stesso a Dio Padre, una volta per sempre, con la sua morte, sull’altare della croce per realizzare una redenzione eterna; poiché il suo sacerdozio non doveva cessare con la morte (Eb 7, 24.27), nell’ultima cena, nella notte in cui fu tradito (1 Cor 11, 13), per lasciare alla sua diletta sposa , la Chiesa, un sacrificio visibile, come esige la natura degli uomini, in cui fosse rappresentato (rapraesentaretur) quel sacrificio cruento che doveva compiere una volta per tutte sulla croce e rimanesse la sua memoria sino alla fine del mondo e fosse applicata la sua potenza salvifica in remissione dei peccati da noi commessi ogni giorno, dichiarandosi costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech (Sal 109, 4), offrì a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto la specie del pane e del vino e sotto gli stessi simboli li diede agli apostoli, che allora costituiva sacerdoti  della Nuova Alleanza, perchè li ricevessero, e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio che li offrissero, con le parole “Fate questo in memoria di me”, così come sempre la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. Infatti, celebrata l’antica Pasqua, che i figli d’Israele immolavano in memoria dell’uscita dall’Egitto (Es 12, 1 ss), istituì la nuova Pasqua, in cui egli stesso sarebbe stato immolato, dalla Chiesa per mezzo dei sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo transito da questo mondo al Padre, quando con l’effusione del suo sangue ci redense e ci liberò dal potere delle tenebre e ci trasferì nel suo regno (Col 1, 13)” (DS 1740-1741).

 

Nei canoni relativi viene tra l’altro dichiarato:

 

Can. 1: “Se qualcuno dice che nella messa non è offerto a Dio un vero e proprio sacrificio o che questa oblazione non sia altro che cibarsi di Cristo, A. S.” (DS 1751).

 

Can. 3: “Se qualcuno dice che la messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento o una nuda commemorazione del sacrificio della croce e non un sacrificio propiziatorio ; oppure che giova solo a chi lo riceve, e che non si deve offrire per i vivi e per i defunti, per i peccati, le pene, espiazioni e le altre necessità, A. S.” (DS 1753).

 

Il Concilio definisce che la messa è un vero sacrificio propiziatorio che si offre a Dio per i vivi e per i defunti e per tutte le necessità per le quali si offre un sacrificio. Afferma pure che la messa non è un oltraggio o un deprezzamento del sacrificio compiuto sulla croce (can. 4, DS 1754), ma si identifica in esso, in quanto “una e identica è la vittima, lo stesso che ora la offre per il ministero del sacerdote... rimanendo diverso solo il modo in cui viene offerta” (DS 1743). Così il sacrificio eucaristico non è che il sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte (semel), che con la messa viene reso presente (rapraesentaretur), come memoriale della nuova Pasqua di liberazione.

 

Le dichiarazioni del Concilio di Trento sul carattere sacrificale della messa, che potevano trovare la giustificazione sia nella Scrittura che nella tradizione patristica (cf. Auer-Ratzinger, 303-313), lasciarono alla teologia il compito di studiare l’intima natura del sacrificio eucaristico (cf. ibidem,321-326). Le teorie escogitate dai teologi nei secoli scorsi, che partivano dal concetto generale di sacrificio per vedere come esso poteva essere applicato alla messa, sono solo un ricordo storico. Il problema vero non ha cessato di essere studiato e anche nel nostro tempo si sono avanzate varie ipotesi di soluzione.

 

A differenza delle teorie del passato che s’ingegnavano a scoprire nella stessa celebrazione eucaristica il modo in cui si realizzava il concetto di sacrificio (nell’offerta, o nella distruzione vista misticamente nella separazione del corpo e del sangue, o nella modificazione della materia sacrificale, o nell’oblazione o immolazione personale), le ipotesi sorte dopo il rinnovamento degli studi liturgici tendono a rimettere in rilievo la relazione tra il sacrificio della messa e quello della croce, cercando di spiegare come il sacrificio redentore si renda presente nella celebrazione eucaristica (cf. Beni, 139-142; Quarello, 124-141). Sotto questo aspetto il problema si riallaccia a quello generale della presenza degli atti salvifici di Cristo nelle azioni sacramentali (v. sopra), con la teoria del Casel, le relative critiche e i nuovi tentativi di soluzione.

 

Particolarmente valorizzato a questo proposito è stato il concetto di memoriale (cf. Thurian, Tillard ecc.) inteso in senso molto realistico, o quello di attualizzazione del sacrificio della croce. Recentemente il DUrrwell ha proposto: “Quando, mediante l’eucarestia, Cristo si rende presente alla comunità, in quell’istante, nell’attualità del sacrificio,egli viene. L’eucarestia non sopraggiunge, non è un sacramento post-pasquale, non viene ad aggiungersi all’evento pasquale, che è escatologico, pienezza terminale. Essa non è una riproduzione o un rinnovamento, non moltiplica all’infinito il sacrificio di Cristo, mai ripetuto, per sempre irripetibile. Non lo riattualizza, giacchè questo sacrificio è attuale per sempre, ma è la sua apparizione nel nostro mondo. Ogni volta che si celebra questo sacrificio come memoriale, l’opera della nostra redenzione si mostra sulla scena del mondo; viene fuori allo scoperto. Il sacrificio la fa apparire nella Chiesa... Essa è dunque sacrificio quanto presenza e perchè presenza, giacchè il corpo di Cristo è anche il suo sacrificio; la venuta e la presenza di Cristo sono quelle del mistero pasquale, poiché Cristo è questo mistero, la salvezza nel suo evento. La sua presenza è donazione di sè; egli viene nella morte “per molti”, nell’eterna nascita per essa” (63-64).

 

La posizione del Durrwell è indubbiamente suggestiva, ma pensiamo sia giusta la critica che le muove il Piolanti, quando osserva che tutta la tradizione teologia parla di una certa novitas del sacrificio dell’altare nei confronti di quello della croce, senza contare che nella teologia, indubbiamente ricca, del Durrwell, centrata tutta sulla risurrezione di Cristo, il mistero della croce non è sempre sufficientemente valutato, mentre la celebrazione eucaristica, pur attuando la presenza del Cristo risorto, resta un annuncio della morte del Signore e un dono del corpo dato per noi e del sangue effuso per la remissione dei peccati.

 

Non crediamo necessario  affrontare la non facile impresa di presentare i vari contributi dati negli ultimi anni per la soluzione del nostro problema, contributi che vorrebbero essere più o meno decisivi, ma che vengono poi regolarmente messi in questione (cf. Quarello; Piolanti; A. Bellini in “Eucaristia e rito”).

 

Proprio il susseguirsi  di tentativi dimostra che una soluzione soddisfacente non è facile a dirsi. Le varie ipotesi hanno in genere elementi validi, in quanto utilizzano concetti presenti negli stessi testi eucaristici neotestamentari, come il concetto i memoriale, di alleanza, di banchetto, di nuova Pasqua. Ci sembra di poter notare pure un difetto piuttosto comune a molte opere: quello di spiegare la presenza degli atti salvifici di Cristo nella celebrazione eucaristica con delle teorie che valgono indubbiamente per l’eucarestia, ma sono vere anche per alte celebrazioni sacramentali, e quindi non risolvono il problema specifico della natura del sacrificio della messa.

 

Per questo crediamo sia necessario considerare più attentamente il significato specifico del sacrifico eucaristico nella vita sacramentale della Chiesa.

 

L’EUCARISTIA COME SACRIFICIO DELLA CHIESA

 

Prendiamo come base di riflessione una pagina molto densa del Betz: “Come abbiamo visto, l’eucaristia è il sacrificio attualmente presente di Gesù Cristo e con questo sacrificio si identifica non fenomenicamente, ma sostanzialmente. Il suo senso e il suo fine è l’integrazione dei cristiani nell’azione salvifica di Cristo, mentre la loro elevazione al Padre rappresenta la “cristificazione” massima degli uomini. Ciò implica una confermazione a Cristo e al suo atteggiamento sacrificale. Tale confermazione avviene fondamentalmente già nella fede, che nella sua figura fondamentale di fiducia equivale a dedizione a Dio. L’interiore atteggiamento sacrificale della Chiesa ora nell’eucaristia viene personificato in un evento esterno, esso pure sacrificale, in una offerta cultuale. Ora il momento del sacrificio distingue la cena dagli altri sacramenti. Ad esempio anche il battesimo e la sua penitenza sono anamnesis della morte e risurrezione di Gesù, essi però non sono sacrificio. Certamente la confessione può essere o presupporre un grande sacrificio interiore, ma il suo segno esteriore di penitenza non è un sacrificio, bensì un procedimento giudiziario, imitazione e attualizzazione del giudizio sui peccati e i peccatori che è stato compiuto in Gesù. Nell’eucaristia invece viene attualizzata la dedizione sacrificale di Gesù al Padre sulla croce, e ciò nella figura simbolica ad essa adeguata di un sacrificio cultuale, nel cui svolgimento diviene presente sostanzialmente la stessa vittima Gesù. Nel sacramento dell’altare abbiamo quindi uno spessore particolare della realtà. Il sacrificio cruento di Cristo nel sacrificio cultuale della Chiesa acquista un nuovo modo spazio-temporale di presentazione, sviluppa così la sua ricchezza e produce l’integrazione dell’umanità nel Christus totalis” (MS 8, 347-348).

 

Sottolineamo tre concetti che cercheremo pio di approfondire: 1) l’eucaristia si distingue dagli altri sacramenti in quanto è sacrificio cultuale mediante la presenza sostanziale, sotto i segni sacramentali, della stessa vittima nel suo sacrificio redentore; 2) la novità del sacrificio eucaristico nei confronti di quello della croce è di essere il sacrificio cultuale della Chiesa; 3) questo sacrificio della Chiesa produce l’integrazione degli uomini nel Cristo nel suo atteggiamento sacrificale.

 

L’eucaristia è dunque il sacramento del sacrificio di Cristo in quanto sacrificio. E’ un sacrificio anamnestico, che rende presente il sacrificio della croce, comunque questa presenza si possa spiegare. Quando il sacerdote, in persona Christi, ripete sul pane e sul calice le parole dell’ultima cena, rende presente il corpo e il sangue di Cristo offerti per noi, sotto i segni che esprimono la dedizione totale (secondo alcuni esprimono la separazione sacrificale del corpo e del sangue). La messa va quindi vista e vissuta come il sacrificio di Cristo che viene di nuovo offerto sacramentalmente nella Chiesa.

 

E’ qui appunto la novità del sacrificio della messa nei confronti di quello della croce. Si tratta dello stesso sacrificio, ma nella messa “la Chiesa si costituisce come soggetto del sacrificio” anche se può farlo “soltanto en Christo, come corpo del capo Cristo” (MS 8, 352).

 

Scrive A. Bellini: “La celebrazione della messa è la “memoria” delle parole  e del gesto con cui Gesù ha chiamato i discepoli ad aver parte e ha fatto loro dono del suo donarsi al Padre sulla croce in favore degli uomini e quindi ha fatto dono di se stesso e della sua esistenza come esistenza tutta in favore dell’umanità. Quando, in obbedienza al suo comando, ripeteranno quanto Gesù ha detto e ha fatto, i discepoli avranno parte al sacrificio di Gesù, il cui donarsi sulla croce al Padre per gli uomini è visto come un donarsi continuato nella Chiesa e nella storia. L’assemblea che celebra è fatta partecipare all’evento della croce, che costituisce il passaggio al Padre, quindi nella vita e nell’eterno, dell’umanità, come umanità liberata e accettata. Ordinando ai discepoli di far memoria, prima che della sua morte, del dono che egli fa loro nell’ultima cena del suo donarsi al Padre sulla croce, Gesù continua a far dono alla comunità del suo donarsi al Padre e quindi, nello stesso tempo, continua a donarsi al Padre attraverso la comunità stessa” (in “Eucaristia e rito”, 29).

 

Similmente  J. H. Nicolas vede un identificazione simbolica tra l’azione della Chiesa e l’atto salvifico di Cristo: “In forza di questa identificazione simbolica, questa azione, che come azione della Chiesa e del Cristo, in questo momento del tempo, è nuova, distinta e separata nello spazio e nel tempo, è rivestita del valore sacrificale della morte del Cristo: così che, se essa è un’altra azione, e compiuta dalla Chiesa, non è tuttavia un’altro sacrificio. Essa offre al sacrificio del Cristo, compiuto un tempo dal Cristo solo e in modo cruento, un supporto ontologico del nostro tempo, nella comunità che celebra l’eucaristia e nella Chiesa attuale che si realizza in essa, per essere realmente presente  presente, attivo, offerto, non più al Cristo soltanto, ma dalla Chiesa con lui” (938).

 

La convinzione della Chiesa è espressa dall’antica e diffusa formula “celebrando la memoria, offriamo” (Memnemenoi prospheromen - memores offerimus), con cui la comunità ecclesiale afferma di essere il soggetto che offre con Cristo la stessa offerta di Cristo, che è poi Cristo nella sua offerta al Padre per la salvezza del mondo.

 

Offrendo con Cristo, la Chiesa offre pure con Cristo: l’eucaristia produce l’integrazione dei fedeli nel sacrificio di Cristo, così che la messa diventa il sacrificio del Cristo totale, del Capo e delle membra.

 

Questa dottrina è stata mirabilmente illustrata da S. Agostino in un celebre brano: “Vero sacrificio è ogni opera che si compie per congiungerci a Dio in una santa unione (ut sancta societate inhaereamus Deo)... Per cui l’uomo consacrato in nome di Dio e votato a Dio, in quanto muore al mondo e vive per Dio è sacrificato... Così avviene che tutta la città redenta, cioè la riunione e la società dei santi si offra a Dio come sacrificio universale per mezzo del Gran Sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi con la sua passione nella forma di servo, per farci essere il corpo di un così eccelso capo... Questo è il sacrificio die cristiani: molti in un solo corpo in Cristo. E questo sacrificio la Chiesa lo celebra assiduamente nel sacramento dell’altareben noto ai fedeli, in cui le viene dimostrato che, nella stessa oblazione che offre, essa stessa è offerta (in e a re quam offert, ipsa offeratur)” (De Civ. Dei, 10,6).

 

A questo brano si riferisce pure l’enciclica “Mysterium fidei”: “La Chiesa fungendo in unione con Cristo da sacerdote e da vittima, offre tutta intera il sacrificio della messa e tutta intera vi è offerta. Questa mirabile dottrina, già insegnata dai Padri (cf. De Civ, Dei X, 6) recentementa esposta dal nostro Predecessore Pio XII (enc. Mediator Dei), ultimamente espressa dal Concilio Vaticano II nella Costituzione De Ecclesia a proposito del popolo di Dio (n. 11), noi ardentemente desideriamo che sia sempre più spiegata e più profondamente inculcata nell’animo dei fedeli... Tale dottrina infatti è quanto mai adatta ad alimentare la pietà eucaristica, ad esaltare la dignità di tutti i fedeli, non che a stimolare l'animo a toccare il vertice della santità, che altro non è che mettersi tutto a servizio della divina Maestà con una generosa oblazione di sè” (n. 14).

 

Per comprendere meglio questo aspetto del sacrificio della messa dovremo prima studiare la partecipazione del fedele al convito eucaristico e  considerarne gli effetti.

Concludiamo l’argomento con alcuni corollari.

 

1.La partecipazione alla messa anche senza ricevere la comunione, benché non sia piena, ha sempre un grande valore in quanto si partecipa al sacrificio di Cristo reso presente nel sacrificio della Chiesa.

 

2.La messa ha sempre un carattere pubblico e sociale, poiché “ogni messa, anche se privatamente celebrata da un sacerdote, non è tuttavia cosa privata, ma azione di Cristo e della Chiesa, le quale nel sacrificio che offre ha imparato ad offrire sè medesima come sacrificio universale, applicando per la salute del mondo intero l’unica e infinita virtù redentrice del sacrificio della croce” (Mysteruim fidei, 15).

 

3.Come sacrificio della Chiesa, la messa, oltre ad avere un effetto salutare per tutto il mondo, può essere applicata, mediante l’intenzione del ministro, a favore di qualche persona particolare (cf. O’Neill, 40-41).

 

LA PRESENZA REALE SOSTANZIALE DI CRISTO NELL’EUCARISTIA

           

Dopo aver studiato la presenza di Cristo nella celebrazione eucaristica e la presenza del suo sacrificio nel sacrificio della Chiesa, affrontiamo il problema della presenza reale sostanziale del corpo e del sangue di Gesù sotto le specie del pane e del vino.

 

Il problema non va isolato dall’insieme della dottrina dell'eucaristia, ma richiede un approfondimento particolare, come verità che conferisce a tutto il mistero eucaristico un valore unico. Proprio il carattere unico, assolutamente straordinario, di questo tipo di presenza ha causato difficoltà nel passato e continua a causarne: gli interventi del Magistero ma hanno diffuso tutta la realtà, interpretando realisticamente le parole: “Questo è il mio corpo” e “Questo è il mio sangue”.

 

Il Magistero poteva fondare tranquillamente l’interpretazione realistica sulla tradizione della Chiesa, nella quale “fin dall’inizio la presenza reale di Cristo è testimoniata in maniera sorprendentemente chiara” (Sm. 7, 1).

 

Dall’affermazione dell’identità tra il pane e il vino e il corpo e il sangue del Signore, si passò a quella della presenza del Cristo totale nelle due specie e in tutta le eucarestie (cf. MS 8, 359-362).

 

Il problema della presenza reale si acutizzò con la negazione di Berengario. La formula di fede che gli impose il Sinodo Romano del 1059, composta dal cardinale Umberto da Silva Candida identificava in senso ultrarealistico il corpo eucaristico di Gesù con il suo corpo storico, in quanto nell’eucaristia in maniera sensibile il copro di Cristo poteva essere “toccato e spezzato dalle mani dei sacerdoti e frantumato dai denti dei fedeli” (DS 690).

 

Per evitare questi eccessi ultra realistici e confermare la realtà della presenza di Cristo, fu introdotto il concetto di presenza secondo l'essenza o sostanza che fu poi elaborata con maggiore precisione dalla Scolastica.

 

La negazione della presenza reale fu rinnovata dai catari, dagli albigesi, da Wyclif, poi da Zwingli che sosteneva una presenza puramente simbolica e da Calvio che ammetteva solo una presenza dinamica.

 

Il Concilio di Trento nella sessione XIII, dopo aver esposto la dottrina cattolica sulla presenza reale e sulle sue conseguenze, dichiara:

Can. 1.“Se qualcuno nega che nel santissimo sacramento dell’eucaristia è contenuto veramente, realmente e   sostanzialmente (vere, realiter et substantialiter) il corpo e il sangue insieme con l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù   Cristo, ma dirà che in esso vi è presente in segno o in figura o in potenza, A. S.” (DS 1651).

Can. 3.“Se qualcuno che nel venerabile sacramento dell’eucaristia sotto ciascuna specie e, avvenuta la divisione, sotto le singole parti di ciascuna specie sia contenuto tutto il Cristo, A. S.” (DS 1653).

 

Il Concilio definisce anche la permanenza della presenza di Cristo nelle ostie non consumate e conservate (DS 1654); la validità del culto che si rende al S. S. Sacramento nell’adorazione anche pubblica e nelle processioni (DS 1656); la liceità della conservazione dell’eucaristia nel sacrario (DS 1657).

 

Per quanto riguarda il modo in cui la presenza reale si attua lo stesso Concilio dichiara nel Can. 2: “Se qualcuno dice che nel sacrosanto sacramento dell'eucaristia rimane la sostanza del pane e del vino insieme al corpo e al sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, e nega quella mirabile e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto la specie del pane e del vino, conversione che la Chiesa cattolica chiama in maniera molto adatta transustanziazione, A. S.” (DS 1652).

 

La convinzione dei fedeli e le dichiarazioni del Magistero confermano la fede che il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, cioè Cristo stesso in senso reale, sostanziale, in modo che si debba dire: il pane non è più pane e il vino non è più vino, ma sono diventati il corpo e il sangue di Cristo.

 

Fin dai primi secoli si è cercato di dare una spiegazione di questo grande mistero di fede.

 

I Padri greci hanno applicato all’eucarestia il concetto di mutazione (metabole), considerandola come effetto del Logos o dello Spirito che scendono sul pane e sul vino e li rendono corpo e sangue di Cristo. Avviene nell’eucaristia qualcosa di simile a quello che è avvenuto nell’incarnazione: “Il corpo (eucaristico) è veramente unito alla divinità, quel corpo nato dalla Vergine, e ciò non perchè il corpo asceso in cielo vi ridiscenda nuovamente, ma perchè il pane e il vino vengono trasformati nel corpo e nel sangue di Dio. Ma se chiedi come e in che modo ciò avvenga, ti basti sapere questo: ciò avviene per opera dello Spirito Santo, allo stesso modo che per opera dello Spirito Santo il Signore ha assunto per sè e in sè dalla santa Vergine un’esistenza nella carne” (Giovanni Damasceno, De fide orth. 4, 13).

 

Anche i Padri latini, come Agostino, parlano di mutamento (mutare, convertire), appellandosi alla forza creatrice della parole di Cristo, senza dare una spiegazione più precisa del modo in cui avviene la conversio.

 

E’ nel medioevo, sotto la spinta delle controversie suscitate prima da Ratmano contro Pascasio Radberto e poi da Berengario, che si formò man mano la dottrina della trasformazione della realtà profonda, interiore del pane e del vino (substantia) di cui rimaneva immutata soltanto l’apparenza esteriore (species).

 

Con l’ingresso della filosofia aristotelica, si adottò il suo concetto di sostanza (materia e forma) che ha la proprietà di essere in se stessa ed è fondamento degli accidenti che esistono in essa e la manifestano. I grandi maestri della scolastica, come Alessandro di Hales, Bonaventura, Tommaso, sostennero la teoria della transustanziazione , cioè del cambiamento della sostanza dei doni eucaristici nel corpo e sangue di Cristo, rimanendo immutati gli accidenti del pane e del vino.

 

Evidentemente il concetto di sostanza adottato dagli scolastici va compreso in un ampio sistema filosofico: esso indica l’essere-soggetto in opposizione alla molteplicità e alla mutabilità dei predicati e la permanenza di questo soggetto di fronte alla mutazione delle forme fenomeniche. Si tratta di uno dei predicamenti dell’essere finito quello che è il sustrato di tutti gli altri (che vi si aggiungono = accidentes), non va quindi considerato come una realtà sperimentabile fisicamente. Il Betz scrive: “Noi oggi la pensiamo, in un senso più generale e sovratemporale, come profondità dell’ente, come nucleo essenziale proprio delle cose, che esercita una duplice funzione: anzitutto quella di soggetto dell’atto ontologico o fondamento sussistente delle qualità, e in secondo luogo quello del loro fondamento quidditativo determinante. Rispetto a ciò la forma di apparizione (species)è il tessuto degli accidenti, l’insieme delle proprietà fisico-chimiche, nelle quali si esprime la natura, la sostanza” (MS 8, 367).

 

Ora però, mentre nell’esperienza naturale la sostanza si presenta sempre con gli accidenti ad essa connaturali, nell’eucaristia “le sostanze del pane e del vino vengono convertite nelle sostanze del corpo e del sangue di Gesù, ma il modo di presentarsi come pane e vino da parte degli elementi viene conservato, sotto di essi ora divengono presenti il corpo e il sangue di Gesù (ibidem). La presenza di Cristo per modum substantiae permetteva agli scolastici di spiegare molte proprietà dell’eucaristia, come la totalità della presenza di Cristo sotto ogni specie e ogni parte di esse, la non estensione della stessa presenza, la sua non percettibilità, la presenza di Cristo in molti luoghi senza moltiplicazione.

 

Il Concilio di Trento evidentemente definì ciò che con questo linguaggio si voleva esprimere, non definì il valore dello stesso linguaggio nè della filosofia di cui era espressione.

 

A questo proposito ci sembrano chiarificanti le osservazioni di O’Neill: “Il dogma della transustanziazione... afferma soltanto, in termini pre-filosofici, ciò che si deve ammettere se le parole di Cristo, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, sono da attuarsi per fede; cioè, l’intera sostanza del pane si deve cambiare nel corpo di Cristo, l’intera sostanza del vino nel suo sangue. Ciò che il dogma afferma non è altro che ciò che si esige se le parole di Cristo, dette all’ultima cena e nella Messa, devono essere capite come riferentesi alla realtà posta sulla tavola o contenuta nel calice. Infatti, al livello pre-filosofico del senso comune, “sostanza” è ciò che si permette di affermate che una cosa che esiste indipendentemente da noi, dalla nostra conoscenza o dai nostri atteggiamenti è pane oppure il corpo di Cristo. Al senso comune è evidente che una cosa intesa in questo modo non può essere simultaneamente pane e corpo di Cristo. Con la sua affermazione dogmatica la Chiesa rende chiaro il senso in cui legge il racconto biblico delle parole id Cristo all’ultima cena; la parola “è”, come risultato del potere di Cristo, indica una reale identità fra ciò che è sulla tavola e il suo corpo” (101).

 

Al di fuori del “senso comune”, le chiarificazioni della presenza sostanziale presuppongono sempre un sistema filosofico o comunque un particolare modo di considerare la realtà che le sostiene.

 

I limiti del corso non ci permettono di addentrarci nei dettagli dei vari tentativi di interpretazione (cf. le opere di Gerken, Masi, Piolanti), non possiamo tuttavia non accennare alla teoria della transignificazione e transfinalizzazione proposta da diversi autori e contro la quale ha messo in guardia la enciclica “Mysterium fidei”.

 

Le nuove proposte cercavano di venire incontro alle difficoltà dell’uomo di oggi ad accettare una teoria del mutamento della sostanza, quando si sa che da un punto di vista fisico-chimico non si verifica alcun cambiamento.

 

Già nel 1955 il teologo calvinista F. J. Leenhardt nell’opera Ceci est mon corps (trad. italiana 1969) sosteneva: “Dal punto di vista di una riflessione schiava delle categorie greche del pensiero, la sostanza di una cosa è ciò che la cosa è in se stessa. Per cui si pensa che il pane debba diventare altra cosa da quello che era, e che rimanga ciò che è diventato. Dal punto di vista di una riflessione che vede la sostanza non in ciò che le cose sono ma in ciò che Dio fa di esse, il pane diventa il corpo di Cristo quando Dio attua per il credente la misteriosa presenza del suo Figliolo” (59).  Partendo da queste premesse, che sarebbero in armonia con il modo di pensare dell’uomo biblico, il Leenhardt accetta, ecumenicamente, anche la verità della transustanziazione, ma evidentemente in un senso diverso da quello inteso dal Tridentino.

 

Qualche teologo cattolico seguì le proposte del Leenhardt (Vanneste, De Baciocchi ecc.), altri invece (Smits, Davis, Schoonenberg, Schillebeeckx ecc.) cercano nuove soluzioni muovendosi su un piano più personalistico sulla base della fenomenologia che ritiene assurdo parlare delle “cose in se stesse” senza l’uomo, mentre presuppone che tutto ciò di cui l’uomo possa parlare è L’in-se-stesso-per me. Nell’eucaristia Cristo stabilisce una presenza offerta a noi, una presenza orientata alla donazione, alla reciproca comunione. Ciò che cambia non è il pane e il vino, ma il loro significato, la loro funzione, quindi si deve parlare di transignificazione e trasfinalizzazione non in senso soggettivo, ma oggettivo, in quanto il pane e il vino diventano il dono della presenza di Cristo (per un’esposizione abbastanza chara cf. O’Neill e Piolanti).

 

La fenomenologia ignora “che la realtà, nel manifestarsi a me come “per me”, allo stesso tempo si manifesta come indipendente da me” (O’Neill, 98): si comprende come un’interpretazione della presenza eucaristica di Cristo fondata su questa filosofia porta a considerare la conversio del pane e del vino più o meno sullo stesso piano di ciò che avviene ai biscotti quando diventano manifestazioni di dono e di amicizia al momento di tè (paragone usato dai sostenitori della teoria).

 

Contro questa interpretazione l’enciclica “Mysterium fidei” richiamava la dottrina precedente del Magistero e la confermava con espressioni chiaramente realistiche: “Avvenuta la transustaziazione, le specie del pane e del vino senza dubbio acquistano un nuovo significato e un nuovo fine, non essendo più l’usuale pane e l’usuale bevanda, ma il segno di una cosa sacra e il segno di un alimento spirituale; ma intanto acquistano nuovo significato e nuovo fine in quanto contengono una nuova realtà, che giustamente denominiamo ontologica. Giacchè sotto le predette specie non c’è più quel che c’era prima, ma un’altra cosa del tutto diversa; è ciò non soltanto in base al giudizio della fede della Chiesa, ma per la realtà oggettiva, perchè convertita la sostanza o natura del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo, nulla rimane più del pane e del vino che le sole specie, sotto le quelli Cristo tutto intero è presente nella sua fisica realtà, anche corporalmente, sebbene non allo stesso modo con cui i corpi sono in un luogo” (n. 24-25).

 

Realtà ontologica, fisica realtà, corporalmente: le parole dell’enciclica non lasciano dubbi sull’interpretazione nettamente realistica, affermando appunto che “sotto le predette specie non c’è più quel che c’era prima, ma un’altra cosa del tutto diversa”. Del resto solo un tale realismo ci permette di non svuotare l’eucaristia del suo significato mirabile ed unico.

 

Senza ricorrere ad alcun sistema filosofico, alla luce della fede e dei dati dell’esperienza attuale, potremmo tentare di considerare il mistero della transustanziazione più o meno così. Cristo ci ha lasciato il suo corpo e il suo sangue sotto i segni del pane e del vino, quindi il pane e il vino devono apparire come pane e vino per essere i segni della presenza di Cristo che si fa nostro cibo e bevanda nel sacrificio e convito eucaristico.

 

La nostra mentalità attuale, più empirica di quella dei teologi del passato, ci dice che il pane e il vino sono agglomerati di sostanze chimiche che a loro volta sono in un insieme di molecole, di atomi, di particelle subatomiche. Se tutto questo non cambia,allora cos’è che cambia per far sì che il pane e il vino non siano più tali? Dovremmo forse pensare, come qualche teologo aveva pensato per spiegare la permanenza degli accidenti, che Dio mantiene intatta miracolosamente le proprietà del pane e del vino in modo da farli apparire tali anche di fronte a qualsiasi analisi? Pensiamo piuttosto che l’onnipotenza divina possa assumere tutta la realtà fisica del pane e del vino per farla diventare la realtà fisica, sostanziale, sacramentale, del corpo e del sangue di Cristo, senza maturarne le qualità fisico-chimiche.

 

In fondo il nostro corpo è un agglomerato di sostanze che sono unite per formarlo, che diventano “noi” perchè nella loro funzione attuale sono una parte del creato destinata attualmente ad essere il nostro corpo animato dal nostro spirito. Dio può destinare le sostanze che formano il pane  e il vino ad essere, realmente, ontologicamente, il corpo e il sangue di Cristo, perdendo così la loro precedente destinazione ontologica e assumendone un’altra completamente diversa, pur conservando tutte le loro proprietà fisico-chimiche. Allora il pane e il vino veramente non sono più pane e vino, ma Cristo stesso, il corpo insieme alla sua anima e alla sua divinità, Cristo che non si rende presente incarnandosi nel pane (impanazione) nè coesistendo con la sostanza del pane e del vino (consustanziazione), ma assumendo la sostanza della sua presenza sacramentale, del dono che fa di se stesso come sacrificio e alimento spirituale della sua Chiesa.

 

Così dovunque avviene la consacrazione si realizza, per uno stupendo prodigio dell’infinita carità di Dio, un nuovo modo di presenza di Cristo, il quale non deve discendere dal cielo per prendere posto sotto le specie consacrate, ma “dispone di realtà del mondo terrestre - il pane, il vino - ai fini di una presenza più intensa e totale” (Durrwell, 94).

 

Si tratta evidentemente di un modo di presenza che non ha paragoni, di un mistero di fede che è “il più difficile a credere” (Bonaventura, In IV Sent., 4, 1, 2), ma non impossibile a realizzarsi dall’onnipotenza di Dio che può disporre come vuole delle sue creature.

 

La presenza reale resta una presenza per modum substantiae, quindi con le conseguenze che un tale modo di presenza comporta.

Essa esclude le esagerazioni di Pascasio Radberto o di alcuni avversari di Berengario, i quali concepivano il corpo eucaristico di Cristo in maniera ultra realistica (maniera detta, un po’ umoristicamente, cafarnaitana): non si può dire che il corpo di Cristo viene frantumato con i denti o cose del genere.

 

La presenza di Cristo si verifica “corporalmente, sebbene non allo stesso modo con cui i corpi sono in un luogo” (Myst, fidei, 25): è la sostanza del pane e del vino che viene convertita nel corpo e nel sangue di Cristo e quindi, concomitanter, nel “Cristo tutto intero” (ibidem), il quale non è presente nella sua estensione, ma per modum substantiae, ovunque si trovi la sostanza del suo corpo e del suo sangue e in ogni parte di tale sostanza, sia che le specie rimangano intere, sia che vengano divise.

 

La transustanziazione permette di realizzare una molteplicità di presenza dell’unico corpo glorioso (pneumatico) di Cristo: le specie eucaristiche definiscono il luogo di questa presenza.

 

La realtà della transustanziazione giustifica a fede nella permanenza della presenza reale al di fuori della messa, finchè esiste il segno (specie) che la manifesta. Perchè cessasse tale presenza sarebbe necessario un altro intervento di Dio che riconvertisse la sostanza del corpo e sangue di Cristo nella sostanza del pane e del vino.

 

Conseguenza di tale permanenza è non solo la possibilità di comunicarsi al di fuori della messa, ma anche la validità del culto eucaristico nelle varie forme che sono sorte nella Chiesa. A questo proposito l’istruzione “Eucharisticum Mysterium” del 1967 dice: “I fedeli poi, quando venerano Cristo presente nel sacramento, ricordino che questa presenza deriva dal sacrificio e tende alla comunione, sacramentale e spirituale insieme” (n. 50).

 

            (Per li problema dell’eplichesi rimandiamo allo studio della teologia liturgica).

 

IL CONVITO EUCARISTICO

 

“Il sacrificio pasquale si rende presente in un segno conviviale “fate questo” ha detto Gesù; e la Chiesa fa quello che egli ha fatto nell’ultima cena. Il banchetto è il segno sacramentale di cui si riveste e in cui si fa presente l’evento pasquale. Ci è imbandita una mensa che sazia la nostra fame di Dio e la nostra sete di salvezza. E ci è comandato di prendere e mangiare “C. E. I. Eucaristia, comunione e comunità, (n. 16).

 

Le parole del recente documento della C.E.I. riflettono la tendenza della teologia attuale a voler unire strettamente sacrificio e comunione e a sottolineare il valore della convivialità nella celebrazione eucaristica.

 

Il Tillard osserva: “Tutta una teologia e una certa spiritualità hanno per molto tempo separato il sacrificio eucaristico e la comunione eucaristica...oggi esistono pochi teologi che non ammettono la congiunzione essenziale tra sacrificio eucaristico e comunione eucaristica... Nella celebrazione eucaristica a Chiesa riunita , nella sua struttura di popolo di Dio organicamente unito a Cristo Capo offre al Padre, mediante il ministero del sacerdote “sacramento di Gesù”, sotto le specie del pane e del vino separati, transustanziati nel corpo e nel sangue di Cristo, il movimento ascendente dell’oblazione della croce.. Ma poiché il suo sacrificio (di fatto il sacrificio storico dell’evento morte-resurrezione misteriosamente ri-presentato) è già accettato, essa riceve in risposta, nel mangiare la vittima, comunione ai beni divini di cui il Padre ha gratificato è per essa questa vittima (100-103).

 

Dopo aver ricordato i pasti presi da Gesù con i discepoli e con i peccati e le parabole in cui si parla del convito degli uomini con Dio, il Gerken scrive: “la presenza eucaristica di Cristo è da vedersi in primo luogo nella presenza dell’ospitante, che mediante il suo convito dona comunione con sè come realizzazione massima della promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). La tavola che la Chiesa prepara per la celebrazione eucaristica ed alla quale essa stessa si nutre è la mensa imbandita da Gesù mediante l’ultima cena, mediante la sua promessa, la sua morte e la sua resurrezione. Come risorto egli ha nella forza del suo spirito il potere di imbandite in qualità di padrone la mensa eucaristica. Ciò che egli offre  a questa mensa è la comunione con se stesso, e per questo tramite la partecipazione alla sua unione col padre, il che si concreta nel fatto che Gesù fa del pane e del vino, mangiato e bevuto durante il convito festivo, un’espressione della sua donazione di vita, un segno della sua comunione coi discepoli” (25-26).

 

Non sono che esempi di un nutrito coro di voci che ha voluto rimettere in rilievo la tensione verso la comunione del sacrificio eucaristico. Nulla da ridire su una teologia che promuova la partecipazione dei fedeli alla comunione e ne metta in luce tutto il valore anche nel Concilio Vaticano II risuona l’esortazione perenne della Chiesa: “Si raccomanda molto quella partecipazione più perfetta alla S. Messa, per la quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote ricevono il corpo del Signore dal medesimo sacrificio” (sc 55). Il nuovo codice di diritto canonico raccomanda: “ I fedeli abbiano in Sommo onore la santissima Eucaristia partecipando attivamente nella celebrazione dell’augusto sacrificio, ricevendo con frequenza e massima devozione questo sacramento e venerandolo con somma adorazione” (C. 898).

 

Da un punto di vista strettamente dogmatico sono necessarie alcune precisazioni e riflessioni.

 

Mentre fino al IV sec. in genere i fedeli che partecipano alla mensa si accostavano pure alla comunione, a partire da questo periodo inizia in oriente l’uso di comunicarsi raramente. Già S. Ambrogio può dire: “Se è quotidiano questo pane, perchè tu devi attendete un anno per riceverlo, come i greci usano fare in oriente?” (De Sacr. 5, 4, 25), E S. Girolamo testimonia: tu mi domandi se bisogna ricevere ogni giorno l’eucaristia come si dice usino la Chiesa romana e a Spagna.. Possiamo ricevere pure l’eucaristia in ogni tempo (semper) senza la nostra condanna e senza rimorsi di coscienza” (Epist. 71, 6).

 

La frequenza dell’accesso alla comunione ha subito nei secoli delle variazioni sorprendenti (cf. H. M. Legrande, in “Eucaristia, aspetti e problemi dopo il Vaticano II”, 88-94). Non è facile spiegare questo fatto, che certamente è motivato da disposizioni e sentimenti diversi che possono essere il desiderio di nutrirsi ogni giorno del corpo di Cristo o una riverenza eccessiva (!) che ha consigliato una frequenza più distanziata; la faciloneria di comunicarsi senza troppi scrupoli o la pigrizia e trascuratezza di tanti cristiani.

 

L’autorità della Chiesa è dovuta intervenire per obbligare tutti i fedeli a ricevere la comunione almeno in tempo pasquale, pur esortando più volte alla comunione frequente.Va tuttavia notato che mentre la stessa autorità rendeva obbligatoria la partecipazione domenicale alla messa, in materia di frequenza della comunione ha lasciato più libertà.

 

Se le leggi ecclesiastiche si considerano anche espressione del ministero pastorale della Chiesa, bisogna dedurre che la partecipazione alla messa, anche senza accostarsi alla comunione, è ritenuta più necessaria della comunione, oppure che la  partecipazione alla comunione è considerata un momento molto intenso ed elevato della vita del cristiano, per cui, pur rendendone obbligatorio un minimo di frequanza, è lasciata maggiormente alla decisione dei fedeli, al loro grado di maturità e di esigenza di vita spirituale.

 

Ciò che il magistero della Chiesa ha difeso è che il sacramento della messa conserva il suo valore anche se i fedeli non si comunicano (è invece obbligatoria, per l’integrità del sacrificio, la comunione del sacrificio, la comunione del celebrante con l’ostia e il vino consacrati durante la messa) (cf. DS 1758). L’enciclica “Mediator Dei) richiama questo principio: “Si allontanano dunque dal cammino della verità coloro i quali si rifiutano di celebrare se il popolo cristiano non si accosta alla mensa divina; e ancora di più si allontanano quelli che, per sostenere l’assoluta necessità che i fedeli si nutrano del convito eucaristico insieme al sacerdote, asseriscono accidiosamente che non si tratta soltanto di un Sacrificio, ma di un convito di fraterna comunanza, e fanno della santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione... La santa Comunione appartiene alla integrità del sacrificio, e alla partecipazione ad esso per mezzo della comunione all’augusto Sacramento; e mentre è assolutamente necessaria al ministro sacrificatore, ai fedeli è soltanto da raccontare vivamente”.

 

Un latro punto in cui il magistero della Chiesa si è pronunciato è la liceità e validità della comunione ricevuta sotto una sola specie, dato che sia nel pane che non vino consacrati è presente Cristo nella sua integrità (cf. DS 1731-1733).

 

L’EUCARESTIA NELLA VITA DELLA CHIESA

 

Cosa significa l'eucarestia per la vita dei fedeli, per la vita della Chiesa? Qual è la sua res, la sua grazia specifica? E’ l’ultimo problema che affrontiamo, è il punto di convergenza di quanto abbiamo detto fin ora.

 

Consideriamo l'eucarestia nella sua totalità, come sacrificio sacramentale di comunione da cui scaturiscono per la Chiesa i tesori di grazia propri di questo mistero che è “come il cuore e il centro della sacra Liturgia, in quanto è la fonte di vita che ci purifica e ci corrobora in modo che viviamo non più per noi, ma per Dio, e tra noi stessi ci uniamo col vincolo strettissimo della carità” (Mysterium fidei, n. 1).

 

Notiamo che, malgrado la sua indiscutibile centralità e preminenza, l'eucarestia non è stata ritenuta necessaria alla salvezza in senso assoluto (necessitate medi)come il battesimo e la penitenza per chi è caduto in peccati gravi dopo il battesimo (cf. DS. 1514; 1618; 1706; 1734). Il suo scopo infatti non è di donarci o di restituirci la grazia della giustificazione o della comunione con Dio, ma di alimentarla, di accrescerla.

 

Il Decretum pro Armenis dice: “L’effetto di questo sacramento, che esso produce nell’anima di chi lo riceve degnamente è l’unione dell’uomo a Cristo (adunatio hominis ad Christum). E siccome per la grazia l’uomo si incorpora a Cristo e si unisce alle sue membra, ne consegue che in chi lo riceve degnamente la grazia, per questo sacramento, si accresce, (augeatur); rispetto alla vita spirituale questo sacramento opera ogni effetto del cibo e della bevanda materiale rispetto alla vita del corpo, col sostentarla, accrescerla, guarirla, riempirla di gaudio” (DS 1322).

 

Non è facile ordinare gli effetti dell’eucaristia intorno a un principio unico. Accogliendo varie suggestioni dei teologi che hanno costruito le maggiori sintesi teologiche (De la Taille, Schmaus ecc.) possiamo dire che la grazia fondamentale dell’eucaristia è l’incorporazione a Cristo (adunatio hominis ad Christum). da cui scaturiscono una prospettiva soteriologica (guarigione delle colpe, crescita nella vita di grazia); una prospettiva ecclesiologica (formazione della Chiesa, unione di carità); una prospettiva escatologica (pane di vita eterna, cammino verso la risurrezione).

 

L’eucaristia è veramente carne di Cristo, carne offerta in sacrificio e santificata, totalmente permeata dallo Spirito, ressa sorgente di vita nuova. Essa si unisce alla nostra carne per comunicarle la sua stessa vita, per trasformarla, da carne peccatrice votata alla morte, in carne corruttibile, posseduta dallo Spirito, perciò aperta al mondo divino, aperta all’amore di Dio e dei fedeli. La medesima vita di Cristo, diffondendosi in noi e cumunicandoci lo Spirito, edifica la Chiesa, la grande famiglia formata da uomini dispersi dal peccato ma riunita dalla carità che risana e fa tornare fratelli, forma la Chiesa come corpo di Cristo mediante il quale il Kyrios si rende presente nel modo e vi compie la sua missione. Ed è ancora la Chiesa che viene assimilata da Cristo nella sua Pasqua, nel suo passaggio da questo mondo al Padre fino al giorno in cui parteciperà alla sua gloria di Signore risorto.

 

Cerchiamo di precisare i contenuti di questa visione sintetica.

 

L’eucaristia rende presente il sacrificio di Cristo che la Chiesa totale, Capo e corpo, offre al padre, nello Spirito, così che i fedeli partecipano alla forza redentrice del mistero pasquale. Scrive il Durrwell: “Bisogna dirlo con forza: il pane eucaristico è “il corpo dato”, il calice è quello del sangue versato. Cristo è tanto immolato quanto presente nell’eucaristia; la realtà del sacrificio è pari all’autenticità della presenza. L’eucaristia è il sacramento della comunione con Cristo nel suo sacrificio. La Chiesa infatti deve raggiungere Cristo, divenire un corpo con lui, là dove si realizza la salvezza: nella morte in cui Cristo è glorificato ... Solo così si è cristiani: nella comunione di una stessa morte e risurrezione con Cristo. Il compito di ogni sacramento, e anzitutto dell’eucaristia, è d’introdurre l’uomo nella comunione pasquale di cristo... la Scrittura insegna che la morte è salutare nel suo rapporto con la gloria (1 Cor 15-17); non parla il linguaggio dell’applicazione die meriti, ma quello della comunione, di una comunione realizzata oggi con Cristo nella sua pasqua” (26-27). Così si può dire che l’eucaristia è il “sacramento di Cristo che, con la sua morte, viene presso i suoi e realizza in loro la salvezza che è in lui” (ibidem, 48).

 

L’eucaristia, come memoriale della Pasqua e comunione con il Cristo morto e risorto per noi, alimenta la nuova vita iniziata nel battesimo e significata con specifiche virtualità negli altri sacramenti. Essa è “quasi il compimento della vita spirituale della vita spirituale e il fine di tutti i sacramenti” (S. Tommaso, Sum. Th., III, q. 73, a. 3). Ora, sappiamo che la nostra partecipazione al mistero pasquale produce la morte dell’uomo peccatore ed edifica la nuova vita secondo lo Spirito.

 

Il Concilio di Trento afferma che l’eucarestia è “l’antidoto con cui veniamo liberati dalle colpe quotidiane e preservati dai peccati mortali” (DS 1638). La stesso Concilio tuttavia condanna che dice che “ il frutto principale della santissima eucarestia è la remissione dei peccati” (DS 1655) e stabilisce che per comunicarsi” a coloro che sono coscienti di peccato mortale, per quanto possano giudicarsi contriti, se c’è disponibilità di confessori, è necessario permettere la confessione sacramentale” (DS 1661).

 

Che l’eucarestia purifichi il corpo di Dio, lo strappi dal peccato, è un dato attestato largamente dalla tradizione (cf. Tillard, 107-158).  E’ naturale che sia così, perchè Cristo viene a noi con il suo corpo sacrificato per noi e con il sangue effuso per la remissione dei peccati. Pure il Con. di Trento ricorda che mediante il sacrificio della messa “il Signore, concedendo la grazia e il dono della penitenza, rimette i delitti e i peccati anche enormi” (DS 1743).

 

Perchè allora non ammettere alla comunione coloro che sono coscienti di aver peccato gravemente, senza prima essere riconciliati con Dio mediante il sacramento della penitenza? Appunto perchè l comunione con il corpo di cristo presuppone che si sia già in possesso di una vita di grazia che deve essere alimentata e accresciuta mediante l’unione di carità con il Cristo che forma la sua Chiesa.

 

E’ giusto ciò che dice il Tillard: “ E’ dunque indegno, per sè, dell’eucaristia (e dunque non può, per sè, riceverne l’effetto di perdono) solo colui il quale, ancora coscientemente attaccato al suo peccato, dunque ancora in una situazione di rifiuto della comunione di Vita con il Padre e i fratelli di Gesù, viene pertanto a chiedere il pane della carità, segno e causa del corpo ecclesiale. Indegnità che deriva da una menzogna attuale: egli manifesta esteriormente un’intenzione che non è la sua, esigendo socialmente un effetto che interiormente rifiuta, mangiando il nutrimento che fa la Chiesa mentre pretende di restare separato dal Capo e dalle membra” (129).

 

La distruzione del peccato è contemporanea all’edificazione della vita nuova nel Cristo, “poiché il peccato non è altro che il peccatore chiuso nella santità: Dio sopprime il peccato, quando trasforma il peccatore. La Chiesa è perdonata nell’eucarestia, perchè entra in comunione con l’Agnello di Dio che è la santità di Dio nel mondo” (Durrwell, 162).

 

Nelle osservazioni fatte fin qui s’incontra continuamente il riferimento alla Chiesa. E’ naturale, perchè l’eucaristia è stata sempre considerata essenzialmente come il sacramento che forma la Chiesa. Il Betz riassume così questo tema: “Il luogo in cui il glorificato manifesta la validità e l’universalità escatologica della sua opera salvifica è la Chiesa. Essa è l’integrazione del Christus individualis al Christus totalis, all’agostiniano Christus capur et corpus. E soltano in base a questo Christus universalis si svela l’essenza dell'eucarestia. Essa e la Chiesa sono così intimamente intrecciate che si costituiscono a vicenda. Non a caso concordano nella designazione di “corpo di Cristo”. Questo concetto esprime l’essenza della Chiesa nella sua forma più profonda, la descrive come l’unità dei molti in e mediante Cristo, come la manifestazione visibile del glorificato. L’espressione è valida per la Chiesa non soltanto in un senso metaforico-sociologico, ma in uno molto più reale. Essa è il popolo di Dio che viene animato dalla parole di Cristo, segnato e plasmato nei sacramenti della sua opera salvifica, colmato dal suo santo Spirito, e persino nutrito con il suo corpo e il suo sangue per essere compaginato come corpo suo... il convito del Signore è l’attuazione più intensa e profonda della Chiesa quale corpo di cristo. In esso infatti Cristo prende corpo nei segni sacramentali e si consegna ai cristiani, al fine di incorporarseli, non solo spiritualmente, ma anche in maniera corporale-totale, di renderli suo corpo e di coinvolgerli così nel suo movimento sacrificale per elevarli al Padre” (MS 8, 327-328).

 

L’opera di De Lubac dimostra con abbondantissima documentazione come, sulla scia di S. Agostino, per tutti gli autori latini del VII, VIII, e IX secolo “l’eucarestia è riferita alla Chiesa come la causa all’effetto, come il mezzo al fine, nello stesso tempo che come il segno alla realtà” (23). Gerhoh scriveva: “Manducando Christi corpus fiunt Chiristi corpus” (In psalm. 9), cioè maginado il corpo (eucaristico) di Cristo, i cristiani diventano il corpo di Cristo (la Chiesa).

 

Non possiamo neppure accennare a tutte le implicazioni di questo tema (cf. la opera di B. Forte e a livello più pastorale e spirituale, “Eucarestia un solo corpo un solo spirito”). Dobbiamo tuttavia ricordare che l’eucaristia va considerata in modo tutto particolare come il sacramento della carità e dell’unità della Chiesa: “Il pane spirituale, infatti, spiritualizza quelli che lo mangiano. Lo Spirito, che è l’espressione dell’essere di Dio e il signore del mistero pasquale impone alla Chiesa eucaristica la legge del mistero pasquale che è quella di Dio: una legge di amore e di comunicazione di sè. L’eucaristia apporta all’uomo peccatore, chiuso su se stesso, la grazia che lo salva aprendolo agli altri; consente di essere in una maniera nuova, pasquale, di essere simile a Cristo che esiste in stato di donazione di sè e di comunione. La grazia eucaristica è un bene che si possiede condividendolo; è di carattere trinitario e instaura nel mondo il regime della vita divina... Fatte le debite proporzioni, i fedeli diventano fra di loro ciò che Cristo è per loro: “spiriti datori di vita, esseri in stato di donazione di sè, d’irradiazione di vita” (Dorrwell, 149-150).

 

Formando con l’eucaristia il suo corpo ecclesiale, Cristo unisce i fedeli al suo sacrificio, alla sua vita donata al Padre, alla sua vita donata al mondo. E’ in questa partecipazione alla vita sacrificale di Cristo donata nell’eucaristia che la Chiesa trova la sorgente più valida della sua stessa missione, perchè la missione “più che una cosa da fare, è un modo di essere. Lo stesso modo di essere del Cristo, che è l’inviato del Padre” (C.E.I. Eucaristia... n. 55).

 

Mentre la Chiesa partecipa alla vita e alla missione di Cristo, trova nell’eucaristia anche il pegno della sua speranza, il pregustamento del convito eterno del Regno di Dio. Citiamo ancora il Durrwell: “L’eucaristia è il mondo futuro che s’introduce nella Chiesa, affinché la Chiesa vi penetri. Infatti Cristo, di cui l’eucaristia è il sacramento, è in persona tutta l’escatologia. La sua risurrezione è parusiaca; non c’è altra parusia all’infuori di quella, in cui Dio risuscita il suo Cristo incontro agli uomini e il cui fulgore, un giorno, risplenderà agli occhi di tutti. Cristo è egli stesso il Regno dei Cieli; chiunque è in lui, con lui è nei cieli” (73).

 

Con questa apertura alla pienezza di comunione di vita nel Regno, dove Cristo siederà per sempre a mensa con i suoi dopo che si sarà compiuta in essi pienamente la sua Pasqua, concludiamo queste pagine dedicate al mistero eucaristico.

 

Il comprendere l’altezza e la profondità di questo mistero è un problema di grazia, di esperienza, di vita.