Donald Rumsfeld. Il falco
che teme gli Stati Canaglia
articoli di Maurizio Blondet (quotidiano Avvenire)
Il regime di
Saddam? "È evidentemente utile avere rapporti con esso". Come sono cambiati
i tempi: Donald Rumsfeld lo disse al New York Times il 2l dicembre 1983, di
ritorno da Baghdad. Era la prima visita ufficiale americana da anni, e
Rumsfeld andò a riallacciare le relazioni diplomatiche con Saddam (allora in
guerra con I'Iran) in veste "special envoy", ambasciatore itinerante, del
governo Reagan. Erano gli stessi giorni in cui I'Onu accusava Saddam di aver
usato gas nervini contro le truppe iraniane; il fatto non gettò una sola
ombra nei colloqui U sa Iraq. Ancora nel 1988, quando sperava la nomination
come candidato presidenziale dal partito repubblicano, Rumsfeld vantò fra le
sue benemerenze "l'aver riaperto le relazioni con 1'Iraq".
La carriera politica di Rumsfeld comincia con Nixon, il quale lo mette a
capo di un Office for Economic Opportunity: il suo vice è Dick Cheney, da
allora suo grande amico. Nel '75, Gerald Ford nomina Rumsfeld ministro della
Difesa: resta al Pentagono solo 14 mesi abbastanza per autorizzare
l'acquisto del bombardiere B 1 e del missile Mx. Due commesse assai costose,
che hanno reso Rumsfeld uno dei ministri più amati dalle industrie
dell'armamento. Difatti, ogni volta che alla Casa Bianca s'insedia un
democratico, lui, repubblicano, trova porti sicuri nel privato militare. È
stato presidente della General Instruments Corporation, potente industria
del settore, consigliere d'amministrazione della Brown Boveri, che ha un
importante settore militare, e con le mani in pasta alla General Dynamics
(aerei da guerra senza pilota). Intanto ha presieduto anche la Rand, uno dei
centri strategici privati più influenti sulla politica Usa (finanziato dalle
industrie degli armamenti). Sono ambienti dove patriottismo e affari si
uniscono in modo naturale", ha scritto il giornalista Jason Vest di The
Nation: per dire che qui l'atteggiamento da falco è funzionale agli
interessi delle aziende. Non a caso, dal 1988 Rumsfeld, capeggiando al
Congresso la Commissione "di valutazione del rischio missilistico contro gli
Stati Uniti", ha elaborato la dottrina per cui va famoso: 1'America deve
dotarsi di un ombrello antimissile nazíonale contro "gli stati canaglia:
pronti a colpire, assicura, entro cinque anni. A quello scopo, sostiene,
occorre stracciare tutti i vecchi trattati di limitazione dei missili
intercontinentali firmati con Mosca, me perfino rivedere le vecchie alleanze
tipo Nato: "Dobbiamo essere pronti alle minacce nuove, non alle vecchie",
sancisce. E stila progetti di enormi commesse militari ultrasofisticate.
La Cia però, con George Tenet non condivide questo allarmismo. Rumsfeld,
ribattezzato "il guerriero stellare", pare una Cassandra. Poco ascoltata:
fino all'11 settembre. La tragedia sembra fatta apposta per dar gli ragione
Ora al Pentagono c'è lui, il profeta chiaroveggente. Con carta bianca per le
future guerre "contro il terrorismo". Fra le innovazioni di Rumsfeld, le più
incisive, riguardano l'affidamento ai privati di attività militari prima
riservate allo Stato. Esempio: la logistica e 1'addestramento dei soldati
per la guerra all'Iraq è appaltata alla Kellog Brown & Root. Sussidiaria
della Halliburton, il colosso petrolifero di cui è stato presidente l'amico
Cheney.
Rambo» strapagati che operano
senza controlli
Donald Rumsfeld, ministro della Difesa, dovrà
riferire al Congresso sulla presenza in Iraq di «eserciti privati che
operano fuori dal controllo». Lo chiedono 13 senatori Usa, fra cui Hillary
Clinton, Ted Kennedy e Tom Daschle, capogruppo dell'opposizione democratica.
L'interpellanza arriva, con ritardo, dopo il massacro dei quattro civili
americani appesi al ponte di Falluja. Erano pesantemente armati. Erano
dipendenti della Blackwaters Consulting, una ditta di sicurezza privata che
fornisce servizi paramilitari a contratto. Fra cui la guardia del corpo al
governatore Bremer. Anche i quattro italiani visti in mano irachena sono
probabilmente dipendenti di una delle aziende fornitrici "di risorse
militari". Ossia mercenari. In Iraq ce ne sono 20 mila: assoldati da imprese
private che hanno vinto contratti per la ricostruzione (ed hanno bisogno di
servizi di sicurezza) ma anche dal governo Usa. Non è una novità. Su
contratto del Pentagono, da anni è una compagnia privata (la DynCorps) che
conduce la "guerra al narcotraffico" in Colombia. Un'altra ditta, la Mpri (Military
Professional Resources, Inc.) ricevette nel '94 l'incarico di addestrare le
truppe croate. La Kellogg's Brown & Roots, sussidiaria paramilitare della
petrolifera Halliburton, ha addestrato (in Ungheria) i 700 uomini della
milizia di Chalabi, l'iracheno di fiducia del Pentagono.
Con Rumsfeld, che persegue una gestione manageriale dell'armata, il
subappalto di missioni belliche o paramilitari a ditte private s'è
enormemente ampliato. Un soldato privato, benché pagato da 550 a 1000
dollari il giorno, è economico, perché viene affittato a termine, mentre il
soldato di Stato - assunto a tempo indeterminato - costa anche quando non è
operativo. Gli inconvenienti però si stanno rivelando oggi, in situazione
bellica. Per le Convenzioni di Ginevra, un civile armato catturato in zona
d'operazione (come sono, giuridicamente, i mercenari) può essere impiccato
seduta stante; non è un "combattente legittimo" e non ha diritto al
trattamento dei prigionieri di guerra. Inoltre, gruppi armati intenti ad
operazioni di natura ignota (come i quattro fatti a pezzi a Falluja), che
non rispondono alla catena di comando legale, intralciano o turbano la
legalità del comando regolare a livello tattico: secondo la Bbc, in
Iraq spesso guerrieri privati senza insegne hanno arrestato persone e fatto
posti di blocco non autorizzati. Per non parlare dell'effetto demoralizzante
che le libertà che si prendono questi Rambo hanno sulla truppa regolare: il
soldato Usa guadagna 17 mila dollari l'anno, meno di quello che un Rambo
prende in un mese. In almeno in tre occasioni, mercenari in difficoltà
avrebbero chiesto il soccorso dell'esercito, ricevendo un rifiuto. Non
stupisce che militari dei corpi speciali si licenzino e passino al crescente
business del privato. I quattro massacrati a Falluja erano "Navy Seals", i
commandos della Marina; in Iraq operano ex-parà cileni, guerriglieri serbi,
assaltatori delle Figi e Gurkha. Data la richiesta, gli ex militari
iracheni, anziché nella polizia locale, si arruolano nella difesa privata:
la differenza è tra una paga di 150 dollari, e quella di 700 mensili. La
richiesta è insaziabile: le imprese impegnate nella ricostruzioni spendono
il 20% del loro budget in sicurezza per i loro addetti e lavoratori: sui 4
miliardi di dollari, per il Los Angeles Times. Sul Guardian,
il giornalista Sami Ramadani denuncia decine di assassini mirati di
scienziati e docenti universitari iracheni. Opera di guerrieri a noleggio.
Certo su contratto: di chi? Forse lo chiederanno a Rumsfeld i 13 senatori
democratici che gli hanno ingiunto di riferire. Il costo morale dell'uso di
mercenari può superare i risparmi economici.
L'atto di patriottismo oggi
atteso da Rumsfeld
La più grossa notizia di ieri riguardava un
avvenimento mancato: Donald Rumsfeld "non" s'è dimesso, come ormai gli
chiedono i più autorevoli giornali, e persino alte personalità del Partito
repubblicano Usa. Né Bush gli ha finora chiesto pubblicamente di dimettersi.
Il che fa nascere domande inquietanti. Donald Rumsfeld è un ministro così
competente e capace, che la Casa Bianca non possa privarsene? Vero è il
contrario. Fin dagli anni '80, da quando serviva nel governo Reagan,
Rumsfeld proclamava che l'esercito Usa, con le sue divisioni corazzate
concepite per confrontare il tradizionale nemico sovietico, non era
"preparato alle nuove minacce". Progettava un'armata flessibile, veloce e
leggera, con volume di fuoco schiacciante e tutte le meraviglie
dell'elettronica utili per annichilire il nuovo nemico che - profeta -
Rumsfeld additava nel terrorismo globale, i nemici senza stato, gli
avversari "asimmetrici". Una volta al Pentagono, si è trovato ad avere i
poteri (e i miliardi di dollari) per formare la sua amata creatura. Il
risultato però della sua abilità lo vediamo oggi in Iraq: la solita vecchia
armata americana, poco mobile, esposta alla più prevedibile delle guerriglie
che la usura ora dopo ora. Alla ricerca di un'efficienza di stampo
aziendale, Rumsfeld ha tagliato su servizi essenziali (la logistica),
appaltandoli ad agenzie private a contratto. Risultato: ancor oggi in Iraq
l'armata americana è rifornita male, e persino mal nutrita.
Il capo di Stato maggiore dell'armata di terra, generale Eric Shinseki,
valutò fra i 250 e i 400mila uomini la forza necessaria per "tenere" l'Iraq.
Rumsfeld lo pre-pensionò in modo sprezzante, come il suo stile. Aveva
ragione il generale, come si vede. I 130mila uomini che Rumsfeld ha mandato
sul terreno (secondo lui ne bastavano 70mila) non ricevono avvicendamenti;
la loro usura ha certo una parte nei comportamenti aberranti sui
prigionieri.
È impietoso ricordare altro? Che è stato Rumsfeld con i suoi fidi
viceministri, Paur Wolfowitz e Douglas Feith, e i chiacchierati consiglieri
alla Richard Perle, ad occuparsi in proprio (scavalcando il ministero
competente, gli Esteri) della gestione del dopo-Saddam? A scegliere come
capo dell'amministrazione Usa in Iraq Richard Gardner, che ha dovuto essere
sostituito dopo pochi giorni per manifesta incapacità? E a fidarsi
ciecamente di Chalabi, banchiere discusso, che diceva di tenere gli iracheni
in pugno? È troppo ricordare che Rumsfeld, dal suo ufficio, pretende di
gestire in proprio le operazioni fino nei dettagli, facendo piovere - pare -
sui comandi in linea imperiosi foglietti d'ordine così numerosi e molesti
che gli ufficiali li chiamano snowflakes, fiocchi di neve? E che è stato lui
a insultare Francia e Germania, che oggi sarebbero alleate ben preziose a
Baghdad?
Insomma Rumsfeld, stratega supponente, è l'artefice del disastro non solo
morale, ma strategico, politico, d'immagine, e l'ostacolo a un
coinvolgimento dei Paesi che lui s'è alienato. Nessuno accuserebbe Bush, se
lo licenziasse, di farne un capro espiatorio incolpevole. Anzi: quanto più
lo lascia sulla poltrona, tanto più Bush si accolla le responsabilità del
ministro incapace. E accredita l'agghiacciante sensazione che sia Rumsfeld a
comandare. E Rumsfeld avrebbe un modo eccellente oggi per mostrare il suo
patriottismo: addossarsi la responsabilità non solo, ma andandosene evitando
rappresaglie.
Gli Usa spiazzati dalla guerra
«asimmetrica» di Rumsfeld
Gli iracheni? Ci accoglieranno a braccia
aperte». Lo assicurava un anno fa il viceministro della Difesa Paul
Wolfowitz. Il numero due del Pentagono. Il fatto che “Wolfie” non senta il
dovere non si dice di dimettersi, ma di chiedere scusa, non è (solo)
arroganza. È il segno che gli obiettivi strategici dati per l’invasione
dell’Iraq sono così numerosi, che almeno qualcuno è stato raggiunto. Uno
degli obiettivi lo ha rivelato Philip Zelikow, che oggi è direttore
esecutivo della Commissione d’inchiesta dell’11 settembre: vicinissimo a
Bush, per cui ha diretto il Pfiab, l’organo di consulenti che collegano il
presidente Usa con i vari servizi segreti. Alla Virginia University, davanti
a un selezionato pubblico di politologi, Zelikow ha detto che, occupando
l’Iraq, la Casa Bianca intendeva «eliminare una minaccia ad Israele». Almeno
su questo, Wolfowitz, accanito sostenitore di Sharon (e si dice con doppia
cittadinanza israelo-americana) può dichiarare legittimamente vittoria.
Restano gli altri obiettivi enunciati dalla Casa Bianca per motivare
l’attacco: la «lotta al terrorismo islamico», «portare la democrazia
all’islam», assicurandosi intanto la seconda riserva petrolifera mondiale e,
en passant, riservando buoni affari alle imprese amiche, a cominciare dalla
Halliburton che Dick Cheney presiedeva prima di diventare vicepresidente. E
senza dimenticare, frattanto, che Bush deve rivincere le elezioni. Troppi
piccioni, con una sola fava. Von Clausewitz insegna (è la sua prima lezione
Sulla Guerra) l’assoluta necessità previa di definire (dunque limitare)
l’obiettivo che si vuole raggiungere con il mezzo spaventoso e sanguinoso
delle armi. Se i fini strategici sono sfocati, dice Clausewitz, la cosa
orribile che è la guerra rischia di non finire mai. E i mezzi, rischiano di
non essere mai adeguati a fini che sfumano nell’indistinto. Solo definire
l’obiettivo strategico consente di definire che cosa sia la vittoria, per
dichiararla, e portare a casa i ragazzi.
Il Pentagono di Rumsfeld è impantanato nei suoi troppi obiettivi: così una
passeggiata militare tende a mutarsi in un Vietnam. Tra l’altro, Rumsfeld vi
ha aggiunto un motivo suo, ulteriore: mettere alla prova le nuove dottrine
militari a lui care, chiamate in Usa “Revolution in military affairs”. Alta
tecnologia per risparmiare sui «costi del personale», esternalizzazione dei
servizi (cioè l’affidamento dei rifornimenti ad imprese private civili),
insomma tutti i metodi d’efficienza della gestione d’impresa applicati alla
guerra. Alla base di tali innovazioni è la convinzione che l’America, caduta
l’Urss, deve affrontare minacce asimmetriche. Oggi uno studio dello
Strategic Studies Institutes (Ssi), autorevole centro-studi della Scuola di
Guerra Usa, ha pubblicato un vero trattato in cui dice: «Il concetto di
minaccia asimmetrica offusca la chiarezza di pensiero militare e complica il
lavoro dei comandanti sul campo». Parole sante: dopo tanto teorizzare di
nuovi nemici asimmetrici, ecco l’Armata Usa messa in condizioni di
vulnerabilità di fronte ad attacchi asimmetrici: attentati, sabotaggi,
guerriglia, agitazione politica eversiva. Che sono poi gli eterni metodi con
cui l’occupato reagisce all’occupante, e si chiamava prima non asimmetria,
ma guerra partigiana.
Insomma: l’America deve mettere a fuoco (prima che sia tardi) obiettivi,
mezzi, e limpidezza mentale. Altrimenti sfuggono anche gli obiettivi minori,
i buoni affari. A fornire 400 mila tonnellate di carburanti che servono nei
prossimi tre mesi alle truppe Usa non sarà la Halliburton, che ancora non
riesce a mettere in produzione i pozzi iracheni, ma la Lukoil. Si prega
notare: la russa Lukoil.
Dove finiranno i profitti dei
signori del petrolio?
Il petrolio rincara, e tutti noi siamo più
poveri. Aumenta il pieno di benzina, e il rialzo si ripercuoterà presto sui
trasporti, quindi sugli alimentari, sul riscaldamento, sui viaggi. La
British Airways ha messo le mani avanti: l’aggravio sui carburanti sarà
quest’anno del 15% , e ciò vale per le altre compagnie. Ma c’è chi dal
rincaro ci guadagna, naturalmente. Non noi comuni mortali. Ma le famose
Sorelle: Exxon, BP, Shell, Total Chevron. Basta dir questo: le
multinazionali del greggio dispongono di giacimenti in cui l’estrazione
costa 3-5 dollari il barile. Ogni rincaro sul mercato accresce per loro una
vistosa "cresta" di profitti. Inoltre, diventano convenienti campi
petroliferi il cui costo di estrazione era, prima, proibitivo. Le grandi
compagnie stanno facendo cassa al ritmo di miliardi di dollari,
ricostituendo capitali, e approfittando per ingigantirsi ancor più. La BP
inglese ha comprato (per 8 miliardi di dollari) la metà di una società
petrolifera russa, la Tnk: e così ha aumentato del 18% la sua produzione
giornaliera, pari alla metà di quel che produce l’intera Algeria. Anche
l’Arabia Saudita (coi costi estrattivi più bassi del globo) sta accumulando
petrodollari. Anche la Russia (o più precisamente Putin e gli "oligarchi"
postsovietici che si sono accaparrati l’unica industria profittevole russa)
sta facendo cassa. Tanto più che, contrariamente alle previsioni degli
esperti – convinti che gli obsoleti oleodotti russi non consentissero un
aumento delle vendite – Mosca è pronta ad aumentare le esportazioni del 15%
entro l’anno. Per contro, sta perdendoci la Cina, assetata di petrolio per
la sua economia che corre (a rotta di collo, temono in molti). La tesi
politicamente corretta attribuisce tutti i rincari recenti del petrolio alla
sete cinese, e sostiene che la crisi irachena non c’entra. In realtà, i
traders, ossia i commercianti globali di greggio, calcolano a mezza bocca in
un 15%, o fra 5 e 10 dollari al barile, il "sovrapprezzo della paura": il
costo aggiuntivo determinato dal timore di un’instabilità del Medio Oriente.
Per esempio – scenario da incubo – un attentato di Benladen che interrompa
il flusso saudita.
Il mercato finanziario con i suoi futures sul petrolio, sta scommettendo
pesantemente su ulteriori rincari. E la speculazione stessa contribuisce al
rialzo. Molti e potenti interessi, ormai, sono a favore del rincaro. Fino a
quanto può salire il petrolio? Negli ambienti bene informati, si parla di 70
dollari a barile. Oltre quella cifra, c’è il temuto punto di rottura: il
motore dell’economia mondiale perde giri, consuma meno, e addio profitti.
All’orizzonte, c’è persino un vantaggio per noi comuni mortali. Pochi sanno
che, oggi, solo il 35% del greggio contenuto in un giacimento riesce a
venire estratto. Il 65%, per motivi tecnici, resta dov’è, irraggiungibile
nelle spugne geologiche del sottosuolo. Se il greggio diventa più prezioso,
nuovi investimenti tecnici possono migliorare il tasso d’estrazione. E
l’incremento dell’uno per cento potrebbe garantire un anno di consumi
mondiali in più. Anche la crisi degli anni ’70 condusse, infine, alla
costruzione di motori più efficienti e a una razionalizzazione benefica dei
consumi. Consoliamoci così.
La baldanza delle foto-ricordo: In scena la
contro-America
«Che cosa offriamo al mondo?», si chiede nel suo ultimo editoriale Pat
Buchanan, opinionista cattolico, conservatore (senza neo-), che è stato
persino candidato presidenziale. C'è un'America sgomenta dell'immagine che
dà al mondo di sé, con le fotografie da Abu Ghraib. Tanto più che quelle
ragazze in mimetica, quei soldati in maglietta che sorridono in posa sopra
un cadavere iracheno, non possono essere scartati dall'album di famiglia.
Richiamano irresistibilmente antiche foto color seppia, Texas 1868, Alabama
1902: linciatori che sorridono in posa accanto a un impiccato (di solito
negro), cacciatori che posano sorridenti, carabina Winchester al braccio,
con il cadavere crivellato del capo-pellerossa che hanno braccato e ucciso.
Non che in Europa non si sia fatto di peggio. Ma le SS o gli aguzzini del
Gulag non si scattavano foto-ricordo da mandare agli amici. La differenza
sta tutta lì: in quella sorta di innocenza brutale, nella certezza dei
torturatori di essere il faro della civiltà. Risulta ora che il generale
Boykin, uno dei responsabili nelle torture agli iracheni, è un predicatore
protestante, che nelle sue conferenze suole dipingere gli Usa come «la
nazione cristiana» in lotta con «Satana». La breve storia americana dispone
di un'intera galleria di tali devoti fanatici: ispiratori di linciaggi e
cacce all'uomo, fornitori di alcool, Bibbie e coperte infette di vaiolo agli
indiani, i «Satana» di ieri. Certa mediocrità militare e certa indisciplina
crudele della fanteria Usa non sono meno radicate nell'album di famiglia:
nel passato Usa le forze armate erano milizie private, pagate da capitalisti
di ventura. Così furono presi il Texas ai messicani, e i pascoli agli
indiani. Da braccianti in vena di sangue assoldati per campagne che era
impossibile far durare: al tempo dei raccolti, i volontari disertavano per
andare a mietere. L'America perbene sa che questa America esiste. Ma che non
ha mai avuto voce in capitolo, almeno in politica estera. Oggi, si espone al
mondo. «I nostri falchi, fissati a rendere il Medio Oriente simile
all'America, fanno apparire l'America non-americana», scrive un'altra
opinionista celebre, Maureen Dowd. Esprime il disagio di vedere l'America
dei linciatori, degli ignoranti, del sottoproletariato "evangelizzato" dai
telepredicatori, proporsi sulla scena del mondo, soddisfatta e
sfrontatamente compiaciuta della propria ignoranza, ipocrisia e semplicismo.
«Pianificano il futuro del mondo essendo privi di ogni senso della storia»,
dice la Dowd: e parla dei Rumsfeld, dei Wolfowitz. Sicuri (non diversamente
dai bianchi analfabeti dell'Alabama anni '50) che "America is the best",
l'America è il meglio di tutto, il faro delle libertà e del bel vivere; ed
esportano un'immagine di miseria morale, di cui continuano ad essere fieri.
C'è un'America colta, raffinata, capace di tessere rapporti internazionali
più civili, ma in questo momento appare eclissata da quest'altra che a Abu
Ghraib forza i prigionieri musulmani a mangiare grasso di maiale. Nella sua
lunga carriera Rumsfeld si era già trovato a teorizzare che le convenzioni
di Ginevra, e persino i trattati di non proliferazione con l'Urss, andavano
stracciati perché «i comunisti vogliono solo legarci le mani». Ora è al
potere, ma egli non è tutta l'America, ed è sperabile che conti sempre meno
anche alla Casa Bianca. Per intanto il risultato è increscioso per la stessa
civiltà americana, e perdente sul piano in cui la brutalità pretende di
giustificarsi, l'efficacia. È quando ci si crede "il meglio" (di non aver
più niente da imparare) che si comincia a regredire verso lo stato
selvaggio. Il selvaggio West.
|