La malattia intanto progrediva velocemente e inesorabilmente. Roberto Ridolfi riferisce la situazione drammatica e, allo, stesso tempo, serena di quei momenti: "Presto anche i suoi non lo intesero più: prima la sua Giacinta, poi nemmeno la sua Viola; soltanto la nipote Anna riusciva a interpretare quei suoni informi e uniformi, quei mugolii inarticolati: come potesse, questo era per me e per tutti un mistero, che faceva pensare al miracolo. A un certo punto le condizioni peggioravano ancora e quasi ogni parola dovette essere formata lettera per lettera. Anna, allora, prendeva a recitare lentamente le lettere dell'alfabeto; quando pronunziava quella voluta, l'infermo faceva un segno col capo, il solo movimento di cui ancora fosse capace; poi ricominciava daccapo fino a formare la parola; ciò fatto, la tremenda fatica ricominciava, lettera dopo lettera, per la parola seguente". Eppure, in queste condizioni, Papini conservò la pace del cuore.
Riuscì, un giorno, a dettare questo pensiero: "C'è un canto dentro di me che devo ascoltare io solo, che devo soffrire e sopportare soltanto io. Questo canto non sarà detto che nell'ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio d'una felice agonia".
Chi riconosce in queste parole il Papini furioso e sacrilego del 1911? Quale meravigliosa trasformazione era avvenuta nel suo cuore!
Negli ultimi giorni si faceva leggere il volume 'Santi che amiamo' di Clara Boothe Luce. Il venerdì, 6 luglio, si aggravò ancora, ma volle ugualmente la lettura del capitolo su S. Francesco. Il giorno seguente quello su Tommaso Moro.
Ormai si avvicinava il grande giorno dell'incontro faccia a faccia con il Signore del suo furore e del suo amore e Papini, come un bambino, aspettava l'ora decisiva della vita di tutti.
Riferisce Roberto Ridolfi: "E venne per gli ultimi conforti un fraticello francescano, fra Clementino, musico, organista eccellente... Non potendo ricevere il santo Viatico per le sue condizioni, ricevette l'Estrema Unzione. Ma quando il sacerdote pronunziando le formule sacramentali lo chiamò Giovanni, l'infermo cominciò ad agitarsi tutto nello sforzo di esprimersi. Intervenne la sua Giacinta e cercò di leggere l'ansia dello scrittore attraverso il linguaggio dello sguardo. Che cos'era che non andava bene? Perché Giovanni non voleva più essere chiamato con il nome di Giovanni? Giacinta, a un certo punto, ricordò un particolare: Giovanni, quando era entrato nel Terz'Ordine Francescano a La Verna, aveva assunto il nome di Bonaventura. Forse, pensò la donna, voleva essere chiamato con questo nome? Giacinta ebbe un lampo e suggerì al sacerdote di chiamarlo con il nome di Bonaventura. Il sacerdote, allora, si accostò nuovamente all'infermo e gli disse: 'Bonaventura, vuoi ricevere il sacramento dell'Unzione degli Infermi?'. Giovanni Papini, a questo punto, ritrovò la serenità: sorrise e fece capire che voleva essere chiamato così nel momento in cui stava per presentarsi all'appuntamento con Dio".
Questo particolare rassomiglia veramente ad un fioretto francescano.
E venne l'alba dell'8 luglio 1956: l'ultimo giorno di quaggiù, il primo giorno dell'eternità: "L'orologio suonava le otto e l'infermo levò di nuovo il capo ad ascoltarlo. Il suono s'era fatto ancora più dolce, più lontano; gli veniva attraverso la nebbia che da tanto tempo ormai l'avvolgeva, ma si era addensata, affoschita di più nelle ultime ore... Buio, buio. Poi, ecco, d'un tratto anche la nebbia è attraversata da una grande luce, come aveva scritto in quella sua scheggia: 'Quando ai miei occhi di prossimo sepolto il sole per l'ultima sera varcherà le mura occidentali, Dio sarà sempre con me, sole dei soli'... Dio lo aveva esaudito: era arrivato in fondo 'con l'anima intera' ". Con l'anima di un agnellino!
Una morte così non è un miracolo? Non è un segno evidente che Cristo è vivo e continua a camminare in mezzo a noi, di strada in strada, di casa in casa, di capezzale in capezzale? Se bussa alla nostra porta, apriamogli senza indugio!