OMAR E IL SACRO VINO
O di come gustarsi veramenre il vino
dal libro “Eretici” di Gilbert Keith Chesterton
Una nuova morale si è rovesciata su di noi con qualche violenza in relazione al problema dell'alcolismo; e gli entusiasti nel campo vanno dall'uomo che viene buttato fuori con violenza alle 12.30 alla signora che fracassa gli American bar con un'ascia. In queste discussioni, quasi sempre appare una posizione molto saggia e moderata quella secondo cui si dovrebbe bere il vino o roba consimile solo come medicina. Su questo punto, io mi spingerei a dissentire con particolare ferocia. L'unico modo veramente pericoloso e immorale di bere il vino è quello di berlo come medicina. E per questo motivo. Colui che beve il vino per averne piacere, sta cercando di avere qualcosa di eccezionale, qualcosa che non si aspetta a ogni ora del giorno, qualcosa che, a meno che sia un po’ folle, non cercherà di avere a ogni ora del giorno. Ma colui che beve il vino per avere la salute, sta cercando di avere qualcosa di naturale; qualcosa, insomma, di cui non dovrebbe mancare; qualcosa di cui, forse, troverebbe difficile accettare la mancanza. Colui che ha visto l'estasi di essere estatico forse non si lascerà sedurre; è più abbagliante cogliere uno scorcio dell'estasi che essere normale. Se ci fosse un unguento magico, e lo portassimo a un uomo robusto e gli dicessimo: «Questo ti permetterà di saltare giù dal Monument», senza dubbio quel tale salterebbe giù dal Monument, ma non salterebbe giù dal Monument tutto il giorno per la gioia della City. Se però portassimo l'unguento magico a un cieco, dicendogli: «Questo ti permetterà di vedere», il cieco si troverebbe esposto a una più forte tentazione. Sarebbe difficile per lui non strofinarlo sugli occhi ogni volta che sentisse gli zoccoli di un nobile cavallo o gli uccelli che cantano all'alba. È facile negarsi le occasioni di festa; è difficile negarsi la normalità. Di qui deriva la conseguenza nota a qualunque medico, per cui è spesso pericoloso somministrare alcolici ai malati anche quando ne hanno bisogno.
È quasi inutile aggiungere che non voglio dire che, a mio parere, sia in ogni caso ingiustificabile somministrare alcolici ai malati come stimolanti. Ma voglio dire che somministrarli ai sani per loro spasso è l'uso appropriato, un uso assai meglio compatibile con la salute.
La regola sensata nella questione sembrerebbe presentarsi come molte altre regole sensate, ovvero, come un paradosso. Bevete perché siete felici, ma mai perché siete infelici. Non bevete mai quando, senza l'alcool, vi sentite derelitti, o sarete come il bevitore di gin dalla faccia grigiastra nel suo tugurio; ma bevete quando, anche senza alcol, sareste felici, e sarete come il ridente contadino italiano. Non bevete mai perché ne sentite il bisogno, perché è un modo razionale di bere, e la via per la morte e per l'inferno. Bevete perché non ne sentite il bisogno, perché questa è la maniera irrazionale di bere e l'antica salute del mondo.
Da più di trent'anni, l'ombra e la gloria di una grande figura dell'Oriente si è distesa sopra la letteratura inglese. La traduzione di Omar Khayam per opera di Fitzgeraldz ha concentrato in un'immortale intensità tutto l'oscuro e fluttuante edonismo del nostro tempo. Dello splendore letterario di quell'opera sarebbe semplicemente banale parlare; in pochi altri libri degli uomini c'è mai stato qualcosa che combinasse così bene la gaia combattività di un epigramma con la vaga tristezza di un canto. Ma sulla sua influenza filosofica, etica e religiosa, che è stata grande quanto la sua genialità, vorrei dire una parola e, lo confesso, una parola di irriducibile ostilità. Molto si potrebbe dire contro lo spirito delle Rubayat e contro la loro prodigiosa influenza.
Ma un capo di accusa torreggia sinistro su tutto il resto, un autentico disonore per l'opera, un'autentica calamità per noi. Intendo alludere al terribile colpo che questa grande poesia ha inferto alla socievolezza e alla gioia della vita. Qualcuno ha definito Omar «il triste, lieto vecchio persiano». Triste, lo è; lieto, no davvero, in nessun senso della parola. Omar è stato, per la letizia, un nemico peggiore dei puritani.
Un pensoso e aggraziato orientale è disteso sotto il roseto con la sua anfora di vino e il suo rotolo di poesie. Può sembrare strano che il pensiero di qualcuno, nel momento in cui lo contempli, voli all'indietro allo scuro capezzale dove il medico elargisce il brandy. Può sembrare ancora più strano che debba tornare al grigio buono a nulla di Houndsditch' tremante per il troppo gin. Ma una grande unità filosofica lega le tre figure in un laccio maligno. Le libagioni di vino di Omar Khayam sono riprovevoli, non in quanto libagioni di vino. Sono riprovevoli, e assai riprovevoli, in quanto libagioni terapeutiche. Sono le libagioni di un uomo che beve perché non è felice. Il suo è il vino che esclude l'universo, non il vino che lo rivela. Non è il modo di bere poetico, che è gioioso e istintivo; è il modo di bere razionale, che è prosaico come un investimento, insipido come una dose di camomilla. Interi firmamenti al di sopra, dal punto di vista del sentimento, anche se non da quello dello stile, si leva lo splendore di certe vecchie canzoni conviviali inglesi:
«Corra dunque la tazza, compagni miei / e che il sidro scorra»..
Perché questa canzone fu colta da uomini felici per esprimere il valore di cose veramente degne, della fratellanza e dell'allegria, e il breve e gentile svago dei poveri. Naturalmente, la maggior parte degli stolidi rimproveri mossi contro la moralità di Omar sono falsi e infantili come, di solito, sono simili rimproveri. Un critico, di cui ho letto l'opera, è giunto all'incredibile balordaggine di definire Omar un ateo e un materialista. Per un orientale, è quasi impossibile essere l'uno e l'altro; l'Est comprende troppo bene la metafisica. Naturalmente, la vera obiezione che un cristiano versato nella filosofia muoverebbe contro la religione di Omar, non è che egli non assegni alcun posto a Dio, ma che Gli assegni un posto eccessivo. Il suo è quel terribile teismo che non sa immaginare null'altro che la divinità e nega completamente i contorni della personalità umana e della volontà umana:
«Mai questione fa la palla di sì o no, / ma sospinta dai colpi vaga intorno; / e Colui cbe vi lanciò dall'alto in campo, / Lui conosce tutto, tutto, né vi è scampo». Un pensatore cristiano, come Agostino o Dante, avrebbe da obiettare a questo perché ignora il libero arbitrio che costituisce il valore e la dignità dell'anima. Il più alto cristianesimo dissente con questo scetticismo, non certo perché nega l'esistenza di Dio, ma perché nega l'esistenza dell'uomo.
In questo culto del pessimistico amante dei piaceri, le Rubaiyat si levano sicuramente al primo posto nella nostra epoca; ma non da sole. Molti dei più brillanti intelletti del nostro tempo ci hanno spinto verso la stessa consapevole attitudine ad afferrare un godimento raro. Walter Pater ha detto che noi siamo tutti condannati a morte e che la sola via possibile è di godere momenti squisiti in se stessi. La medesima lezione insegnava la filosofia, così potente e così desolata, di Oscar Wilde. È la religione del carpe diem; ma la religione del carpe diem non è la religione di persone felici, bensì di persone molto infelici. La grande gioia non coglie i boccioli di rosa finché può; i suoi occhi sono fissati sulla rosa immortale che Dante poté vedere. La grande gioia ha in sé il senso dell'immortalità; lo stesso splendore della giovinezza risiede nella sensazione di avere tutto lo spazio per distendere le gambe. In tutta la grande letteratura comica, in Tristram Shandy' o in Pickwick, c'è il senso dello spazio e dell'incorruttibilità; noi sentiamo che i personaggi sono esseri immortali in un racconto interminabile.
Naturalmente, è abbastanza vero che una felicità penetrante sopraggiunge soprattutto in certi momenti fuggevoli; ma non è vero che noi dovremmo pensare quei momenti come fuggevoli, o goderli semplicemente «per se stessi». Un simile atteggiamento significa razionalizzare la felicità e quindi distruggerla. La felicità è un mistero come la religione e non si dovrebbe mai razionalizzarla. Supponete che un uomo sperimenti un momento veramente splendido di piacere. Non intendo qualcosa legato a un oggettino di smalto, intendo qualcosa colmo di una violenta felicità, quasi una felicità dolorosa. Un uomo può avere, per esempio, un momento di estasi nel primo amore, o un momento di vittoria in battaglia. L'amante ama il momento ma mai per se stesso. Ne gode in grazia della donna, o di se stesso. Il guerriero gode il momento, ma non per se stesso; lo gode per la sua bandiera. La causa per cui si leva la bandiera può essere sciocca o effimera; l'amore può essere un'infatuazione giovanile e durare una settimana. Ma il patriota pensa la bandiera come eterna; l'amante pensa il suo amore come qualcosa che non può finire. Questi momenti sono colmi di eternità; questi momenti sono gioiosi perché non sembrano momentanei. Guardateli per una volta come momenti al modo di Pater, e diventeranno freddi come Pater e il suo stile. L'uomo non può amare le cose mortali. Può solo amare cose immortali per un istante.
L'errore di Pater si rivela nella sua frase più famosa. Egli ci chiede di ardere con una fiamma dura, simile a una gemma. Le fiamme non sono mai dure e mai simili alle gemme: non è possibile maneggiarle o sistemarle. Così, le emozioni umane non sono mai dure e mai simili alle gemme; sono sempre pericolose, come le fiamme, da toccare o anche solo da esaminare. C'è solo un modo per cui le nostre passioni possono diventare dure e simili alle gemme, vale a dire, diventando fredde come gemme. Nessun colpo, dunque, è stato mai vibrato agli amori e al riso naturali degli uomini, avvilente come questo carpe diem degli esteti. Per qualunque genere di piacere, è necessario uno spirito del tutto diverso; una certa timidezza, una certa speranza indeterminata, una certa aspettativa fanciullesca. La purezza e la semplicità sono essenziali alle passioni, sì, anche alle passioni malvagie. Perfino il vizio richiede una sorta di verginità.
L'effetto di Omar (o di Fitzgerald) sull'altro mondo, possiamo anche trascurarlo, ma la sua mano su questo mondo si è rivelata greve e paralizzante. I puritani, come ho detto, sono molto più allegri di lui. I nuovi asceti che seguono Thoreau° o Tolstoj sono una compagnia assai più vivace; perché la rinuncia alle abbondanti libagioni e a lussi del genere, per quanto possa sembrarci un'inutile negazione, può lasciare l'uomo con innumerevoli piaceri naturali e, soprattutto, con la naturale capacità dell'uomo per la felicità. Thoreau poteva godere del sorgere del sole senza una tazza di caffè. Tolstoj, se non può ammirare il matrimonio, perlomeno è abbastanza sano per ammirare il fango. È possibile godere della natura anche senza i lussi più naturali. Un buon cespuglio non ha nessun bisogno del vino. Ma noi non potremo godere della natura, né del vino, né di alcun'altra cosa, se avremo l'atteggiamento sbagliato verso la felicità, e Omar (o Fitzgerald) aveva l'atteggiamento sbagliato verso la felicità. Lui e quanti ha influenzato non vedono che, se dobbiamo essere veramente gai, dobbiamo credere che c'è una qualche eterna gaiezza nella natura delle cose. Non possiamo neppure godere appieno di un pas‑de‑quatre a un ballo benefico, se non crediamo che le stelle stiano danzando alla stessa musica. Nessuno può essere veramente ilare, se non l'uomo serio. «Il vino», dice la Sacra Scrittura, «allieta il cuore dell'uomo», ma solo dell'uomo che ha un cuore. Solo lo spirituale può avere il morale alle stelle. Alla fin fine, un uomo non può rallegrarsi di nulla, se non della natura delle cose. Alla fin fine, un uomo non può godere di nulla, se non della religione.
Una volta, nel mondo della storia, gli uomini credevano che le stelle danzassero alla musica dei loro templi, e danzavano come gli uomini, da allora, non hanno mai più danzato. Con questo antico eudemonismo pagano, il saggio delle Rubaiyat non ha a che fare più che con qualunque varietà del cristianesimo. Non è un seguace di Bacco più di quanto sia un santo. Dioniso e la sua chiesa si fondavano su una seria joie‑de‑vivre come quella di Walt Whitman. Dioniso faceva del vino, non una medicina, ma un sacramento. Omar, invece, ne fa, non un sacramento, ma una medicina. Egli si dà al piacere perché la vita non è gioiosa; gozzoviglia perché non è lieto. «Bevi,» dice, «poiché non sai donde vieni né perché. Bevi, perché non sai quando te ne andrai né dove. Bevi, perché le stelle sono crudeli e il mondo è vano come una trottola musicale. Bevi, perché non c'è nulla degno di fiducia, nulla degno di lotta. Bevi, perché tutte le cose sono scivolate in una meschina uniformità e in una pace maligna.» Così si leva offrendoci la coppa nella sua mano. E sull'eccelso altare del cristianesimo si leva un'altra figura, nella cui mano è un'altra coppa di vino. «Bevete,» dice, «perché l'intero mondo è rosso come questo vino, per il vermiglio dell'amore e della collera divina. Bevete, perché le trombe chiamano alla battaglia e questo è il bicchiere della staffa. Bevete, per questo mio sangue del nuovo testamento che è sparso per voi. Bevete, perché io so donde venite e perché. Bevete, perché io so quando ve ne andrete e dove».