La felicità dell’infelice
di Giovanni Papini
"Corriere della sera" 19 febbraio 1956
"Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto. Non posso dunque camminare né stringere la mano di un amico né scrivere neppure il mio nome; non posso più leggere e mi riesce quasi impossibile conversare e dettare. Sono perdite irrimediabili e rinunce tremende soprattutto per uno che aveva la continua smania di camminare a passi rapidi, di leggere a tutte le ore e di scrivere tutto da sé, lettere, appunti, pensieri, articoli e libri.
"Ma non bisogna tenere in piccolo conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è il meglio. È bensì vero che le cose e le persone mi appariscono come forme indeterminate e appannate, quasi fantasmi attraverso un velo di nebbia cinerea, ma è anche vero che non sono condannato alla tenebra totale; riesco ancora a godere una festosa invasione di sole e la sfera di luce che s’irraggia da una lampada. Posso inoltre intravedere, quando vengono molto avvicinate all’occhio destro, le macchie colorate dei fiori e le fattezze di un volto. Eppure questi barlumi ultimi della visione abolita sembrano miracoli gaudiosi a un uomo che da più di vent’anni vive nel terrore del buio perpetuo".
"E tutto questo non è nulla a paragone dei doni ancor più divini che Dio mi ha lasciato. Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l’intelligenza, la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intuizione o ispirazione. Ho salvato anche l’affetto dei familiari, l’amicizia degli amici, la facoltà di amare anche quelli che non conosco di persona e la felicità di essere amato da quelli che mi conoscono soltanto attraverso le opere. E ancora posso comunicare agli altri, sia pure con martoriante lentezza, i miei pensieri e i miei sentimenti.
"Se io potessi muovermi, parlare, vedere e scrivere, ma avessi la mente confusa e ottusa, l’intelligenza torpida e sterile, la memoria lacunosa e tarda, la fantasia svanita e stenta, il cuore arido e indifferente, la mia sventura sarebbe infinitamente più terribile. Sarei un’anima morta dentro un corpo inutilmente vivo. A che mi varrebbe possedere una favella intelligibile se non avessi nulla da dire? Ho sempre sostenuto la superiorità dello spirito sulla materia: sarei un truffatore e un vigliacco se ora, arrivato al punto della riprova, avessi cambiato opinione sotto il peso dei patiri. Ma io ho sempre preferito il martirio all’imbecillità".
Giovanni Papini quando scriveva queste cose, non era neppure vecchissimo: aveva 75 anni. Pochi mesi dopo, l’8 luglio 1956, lo scrittore moriva. Un quarto d’ora prima di spirare, testimoniò l’amico Ardengo Soffici, conservava una perfetta lucidità di mente, che gli consentì di ricevere gli ultimi sacramenti dal sacerdote che egli stesso aveva fatto chiamare.